«Ho trentun anni e sono anni che non lo vedo, mio padre. Sono qui con una pistola Beretta fra le mani, ho un aspetto orribile, sto per ammazzare il mio ex allenatore e mi sa che non lo diventerò più un calciatore. Mi sa proprio di no». Se per i più il calcio è il luogo della retorica, dei trionfi e dei campioni, per Massimiliano Governi è l'esatto contrario: in mezzo al campo crescono i vinti, si smarriscono i perdenti, si bruciano i perduti. Come il protagonista de Il calciatore, uscito in prima edizione nel 1994 da Baldini e Castoldi e ora meritoriamente ripubblicato da e/o: imbottito di pasticche, dopo un'adolescenza sofferta e piena di pudori, sta delirando, in attesa di consumare la sua vendetta, e in molte cose ricorda i personaggi di un altro intenso libro di Governi, Parassiti.
Chiuso da una settimana nella vecchia 500 della madre, aspetta che prima o poi compaia Mario Malatrasi, il suo allenatore nelle giovanili della Lazio. A lui attribuisce l'intera responsabilità dei suoi fallimenti - sentimentali, sessuali e umani, ben oltre che calcistici.
Non lo ha convocato nella partitella amichevole dei Giovanissimi che vent'anni prima aveva preceduto la conquista dello scudetto da parte della squadra di Tommaso Maestrelli contro il Foggia, e adesso dovrà pagarne le conseguenze.
Nell'aria acida della sua follia, dentro l'abitacolo della macchina in cui sfoglia diari rubati alle vite di altri, l'io narrante riflette sulla sua malattia: «Tutto sommato è meglio un mondo fatto di nemici e di pallone che le distese desertiche dove ho vissuto io in questi anni: fra i cactus, le formiche che ti mangiano il cervello, i pensieri come avvoltoi che ti girano nella testa». Sullo sfondo, la periferia romana desolata e deserta, dove a due poliziotti insospettiti da quell'uomo sfigurato dall'esistenza basta un album di vecchie figurine Super Moto per chiudere un occhio e lasciarlo al suo destino.