Con La figlia maschio, Patrizia Rinaldi ha scritto il suo libro probabilmente più riuscito: meno ambizioso, forse, del precedente Ma già prima di giugno, ma di quello assai più solidamente fondato e concentrato. Dal mio punto di vista, è come se una scrittrice fondamentalmente «di genere» come la Rinaldi (autrice del ciclo di Blanca, la detective ipovedente), il passo decisivo per uscire dagli obblighi del poliziesco non l'abbia dunque compiuto tanto a forza di un insistito lavoro sulla sulla lingua, quasi pensando che quello fosse il solco che divide l'autore letterario dal narratore d'intrattenimento puro, quanto, e in modo ben più convincente, asciugando tutto il letterario in eccesso, usando la lingua non come un ornamento ma semmai come una perpetua possibilità di sovversione, e riscoprendo l'ineludibile centralità delle storie.
Di «una» storia, in questo caso, che è così notevole da dover essere raccontata quattro volte da altrettanti dei suoi protagonisti; e in questa sempre preziosa misura della pluralità che è la collazione dei punti di vista, i quali coi loro radicali esercizi di stile mostrano nel più inconfondibile dei modi che la verità (come forse la realtà stessa) non esiste. Rinaldi si muove bene, calibrando i propri sforzi per svelare/occultare per ciascuno dei suoi personaggi tratti nuovi e interessanti, ma più in generale con una visione effettivamente romanzesca per cui è solo quando anche l'ultimo dei punti di vista è finalmente noto che il quadro si completa e sotto il colore compare il solido disegno, la struttura.
La storia forse la sapete già: è quella di una bellissima fanciulla cinese che, clandestina nelle campagne fuori Hangzhou poiché nata quando ancora vigeva la regola maoista del figlio unico e se nasceva una femmina o la si sopprimeva, o, appunto, la si nascondeva, viene «comprata» da Marino, il tipo del palazzinaro senza scrupoli che se ne invaghisce al primo sguardo. Si fanno carte false, la ragazza viene a Roma. Solo che Marino ha una moglie, Felicita (in viaggio in Cina con lui) e che l'arrivo di Na - questo il nome della ragazza - diventerà il detonatore delle rispettive esistenze, e anche di quella di Sergio, il braccio destro e la faccia più presentabile di Marino, rimescolandole in modo decisivo come in una riedizione di «Teorema» di Pasolini.
Compiuto il suo tragitto, e dalla dorata prigione romana trasferitasi a Posillipo dopo il crack di Marino, Na svetta come una dea sul campo di rovine di una società corrotta e fallita. La sua venustà un tempo naturale è divenuta quella di una «belle dame sans merci», una Juliette, una vergine-puttana colta e sofisticata che ha saputo proiettare il proprio destino oltre ogni più fantastica aspettativa.