Che poi a ben vedere la metà della coppia narrata attraverso gli occhi di chi racconta è sempre la meno interessante delle due parti. Prendiamo ad esempio Lila, l’amica di prodigiosa bellezza e intelligenza che conosciamo attraverso gli occhi impauriti, ammirati e invidiosi di Lenù in L’amica Geniale di Elena Ferrante.
Nell’incominciare con drammatico ritardo* la quadrilogia dell’autrice italiana più letta al mondo mi ha molto colpito come in tanti si dicano infastiditi dal personaggio di Lenù tanto quanto sono abbagliati da quello di Lila. Carol e Lila sono affascinanti per quel gioco che rende intrigante e irresistibile ciò che è misterioso, perché il loro dietro le quinte più intimo ci rimane ignoto. Anzi, le conosciamo attraverso lo sguardo di autentica adorazione di chi le osserva dall’esterno e non riesce ad applicare nei loro confronti lo stesso metro di giudizio spietato che ha nei propri.
Nel primo volume della quadrilogia Ferrante racconta l’infanzia e l’adolescenza di due ragazzine che stringono un legame di amicizia profondo ma spesso competitivo in una Napoli del dopoguerra che con mia grande soddisfazione sfugge un po’ al particolarismo che hanno tante storie partenopee. Il racconto di quella Napoli rifugge il particolarismo celebrativo e diventa universalmente italico e ci ho senti l’eco di tanti racconti del mio stesso parentado (dal mercato nero al “guastarsi” del carattere del fratello Rino roso dall’invidia).
Se è vero che Lila con la sua bellezza nervosa e la sua straordinaria intelligenza e lealtà è ammaliante, da lettrice ho trovato il suo personaggio persino un po’ fastidioso, perché non mi aspettavo che fosse un’amica geniale nel senso letterale del termine. Sinceramente: anche un po’ basta con questi ragazzini di memoria e intelletto e bellezza e volontà eccezionali a due passi dall’Asperger, maschi o femmine che siano. Lenù invece è palpitante in senso contrario, è umana e veritiera e vicinissima al lettore, perché non manca mai quel momento di dubbio, egoismo, orgoglio e soprattutto quello smarrimento tipico dell’infanzia in cui ti rendi costantemente conto di quanto la tua vita sia ancora al di fuori della tua capacità di direzionarla, ancora saldamente nelle mani degli adulti. Ho amato moltissimo il fatto che forse l’unico passaggio in cui Ferrante parla per bocca di Lila sia quello in cui evidenzia la specularità del rapporto amicale, quanto per ognuna delle due l’altra sia geniale, irrinunciabile, un punto di riferimento. Lenù è eccezionale come Lila, è anch’essa un’amica geniale, capace di squarciare per qualche attimo con Lila il velo di miseria umana che circonda i palazzoni e personaggi. Gli abitanti di questa Napoli così poco egocentrica sono miseri umanamente ancor prima che economicamente; da loro trabocca insieme al sangue e al sudore un miasma di odio e violenza che pare quasi connaturato, che Lenù e Lila riescono parzialmente a levarsi di dosso con il loro rapporto, il loro amore per la scuola e i libri, i loro ragionamenti matematici ed esistenziali.
Devo dire di essere rimasta molto sorpresa dalla lettura del primo volume della tetralogia, perché molto distante da quell’idea che mi ero cementata a furia di polemiche dell’establishment nostrano (che il successo globale di una donna narratrice di donne proprio non riesce ad accettarlo senza continui rigurgiti di stizza) e delle lodi di quello internazionale. Sicuramente mi ha colpita l’architettura cronologica del romanzo, che nelle prime 70 pagine fuga ogni dubbio di “narratrice alla buona” istillato dai critici di casa nostra. Certo che io il dubbio potevo anche farmelo venire, se la detrazione viene da esimi critici che non riescono a recensire un romanzo che sia uno senza tirar fuori sintassi, paratassi e frecciatine per i propri amici e nemici. Come si possa liquidare come “sempliciotto” un libro che nel descrivere il passaggio da momento a a momento b (due bambine si apprestano a salire una scala dell’androne – due bambine che bussano alla porta in cima alla scala) ritraendo con piccoli tocchi l’intero spaccato della loro esistenza – prima il palazzo e le famiglie, poi il quartiere e infine la città – in cui questo avvenimento senza importanza (eppure importantissimo per la vita delle due protagoniste) per me è abbastanza incomprensibile. Se provate a tracciare una linea temporale di quanto succede ne L’Amica Geniale vi accorgerete che mentre pensate di seguire banalmente lo scorrere del tempo, in realtà Elena Ferrante continua a balzare poco più avanti, molto più indietro, a collegare e saldare episodi singoli facendogli assumere un significato enorme, trasformandoli in immagini di enorme significato e potenza: la pentola di rame che scoppia, le scarpe fatte a mano, Lila che vola fuori dalla finestra. La scrittura di Ferrante è una composizione di scene di potenza cinematografica, di tante “quella volta che” che ti si imprimono dentro come se le avessi viste su schermo, come quegli episodi che costruiscono la mitologia personale di una famiglia e di un parentado.
Non è il genere di romanzo per cui impazzisco, ma anche io ho provato quel miscuglio di familiarità intima con certi lati ora umani, ora animaleschi dei personaggi, su tutti l’aura disturbante che irradiano i personaggi maschili, sia quanti ricadono nello spettro positivo, sia quanti si rivelano tra gli esseri più abbietti della storia. Credo sia il libro che mi ha rievocato di più certi racconti fatti a mezza voce del periodo durissimo in cui sono cresciuti i miei nonni e i miei genitori, certe cattiverie e certi fattacci consumatisi tra i parenti di cui mi ha sempre stupito la ferocia, quasi facesse parte di un altro mondo, distaccato dalle persone anziane e gentili che vai a trovare da bravo nipote. La prossimità di quel mondo alimentato dalla durezza e dalla disperazione Ferrante te la fa sentire come nessun altro.