Jonathan Franzen le invidia la possibilità di non partecipare alle fiere e di non essere costretta a rilasciare interviste: «Avere a che fare con undici persone alle undici di sera». La sua traduttrice negli States, Ann Goldstein racconta un amore per i suoi libri che dura da quando nel 2003 ha scoperto I giorni dell’abbandono decidendo subito che doveva essere lei a tradurlo. I critici americani più influenti come James Wood del «New Yorker» ne hanno celebrato la grandezza letteraria, Hillary Clinton in un podcast durante le ultime elezioni l’ha definita «una scoperta straordinaria» mentre sta per arrivare la serie di Saverio Costanzo ispirata a L’amica geniale (Hbo-Rai). Ma Ferrante Fever, il film uscito come evento ancora oggi e domani (e poi su Sky Arte HD, www.ferrantefever.it) non è la cronaca dei successi americani di Elena Ferrante nonostante il titolo rimandi al siparietto rosa della libreria di Sarah McNally a New York).
Giacomo Durzi, che lo ha diretto e scritto insieme a Laura Buffoni – sposta l’orizzonte dal «caso» Ferrante, a cominciare dalla questione dell’identità – uno dei punti qui in Italia più battuti tanto da scatenare indagini fiscali che avrebbero identificato la scrittrice con Anita Raja, traduttrice e moglie di Domenico Starnone o con lui stesso – per concentrarsi sull’universo Ferrante: la scrittura, i personaggi, i sentimenti, le figure femminili, le invenzioni letterarie. Attraverso la voce degli intervistati, intellettuali, studiosi, addetti ai lavori del mondo editoriale italiano e americano, da Elizabeth Strout a Saviano, passando per Jonathan Franzen, Mario Martone, che è stato il primo a portare Ferrante su grande schermo con il molto bello L’amore molesto, Francesca Marciano, Sarah McNally, Nicola Lagioia, Ann Goldstein, il film ne indaga le relazioni col pubblico, il senso delle scelte, cosa significa per un lettore o per uno studioso misurarsi con qualcuno di cui non si conosce il volto, se questo aiuta l’opera o invece la mette in ombra. E poi la coerenza, la capacità di toccare sentimenti universali.
«LASCIATE stare gli autori, amate se vale la pena ciò che scrivono, la voce di Anna Bonaiuto scandisce con le parole di La Frantumaglia, questo viaggio tra Napoli e New York, sui passi di una donna di cui non si scorge il volto, anonima nella folla. Elena Ferrante vive dunque solo nelle sue parole, nella sua scrittura, sono i mondi dei personaggi, le loro esistenze, la narrazione delle sue biografie «inventate», di un’antropologia famigliare, dei tentativi di fuga che l’attraversano, di una felicità possibile «nonostante l’inferno».
Parole, i libri che come lei dice sono abbastanza. Quando Saviano la propose al Premio Strega – «si è rivelato quanto fosse polveroso il dibattito letterario italiano» la preoccupazione era ancora solo e soltanto il suo enigma – poi vinse Lagioia. Eppure, come ci dicono gli autori del film, tutto è lì, su quelle pagine per chi sa e vuole coglierlo.