SI intitola “La giustizia di Pulcinella” il terzo romanzo della fortuna serie ideata da Massimo Torre e pubblicata da E/O, stavolta nella Collezione Sabot/age diretta da Colomba Rossi e curata da Massimo Carlotto. Una promozione ampiamente meritata visto che, della trilogia, è il testo più maturo, quello in cui Torre alza la posta mostrando piena padronanza della materia narrativa che mette in campo. Il risultato è che in questo nuovo sequel irrompono questioni di etica, si moltiplicano gli scenari (a Napoli, sempre in primo piano, si affiancano Roma e New York) e al sangue sparso dalla malefica Compagneria si aggiunge quello disseminato da un misterioso serial killer, il Muto di Portici. Protagonista rimane lui, Puccio D’Aniello alias Pulcinella, il giustiziere che difende gli innocenti e punisce, a modo suo, i criminali del Rione Sanità. Un Pulcinella “pulp” e carismatico, che conquista sia per la spiccata umanità che per le mirabilie del supereroe un po’ Batman (a cui rinviano le cavità del sottosuolo dove dimora, e il fidato Diego Armando/Robin) e un po’ Superman (che va sopra i tetti con la sua Rosa Bellella/Lois Lane). Il linguaggio è senz’altro il tratto più godibile di questo personaggio, sostenuto da un’inventiva che deforma e spettacolarizza il lessico con irresistibili effetti comici il cui fine ultimo è intontire l’avversario: «Vojo sapete saputamente da uomo saputo che sape tutto cose isso ma nun sape niente de niente cioè de sapere de non sapere, se se sape ’sta cosa o non se sape, quello che doveto sapè lo sapete mo’ abbasta che lo dite al qui presente e assente servo vostro Pulecenella Cetrulo». Questa operazione letteraria non viene dal nulla, è anzi l’ennesima rilettura di una maschera che non è solo la più longeva tra quelle istituite dalla Commedia dell’Arte ma è anche la più straordinaria per la capacità di non essere mai uguale a sé stessa. Insomma, una figura multiforme dinanzi alla quale persino Benedetto Croce alzò le mani dichiarando l’impossibilità di una definizione univoca. La tradizione lo vuole goffo e buffone, specialista in lazzi osceni e ghiotto di maccheroni. Il teatro di Antonio Petito ne segnò il culmine in termini di popolarità e divertimento ma decretò anche la fine di un certo Pulcinella che, messo alla porta di lì a poco dalla riforma di Eduardo Scarpetta, accentuò i suoi tratti più plebei e si decompose nelle compagnie di terz’ordine e nelle sceneggiate. Fu sullo scorcio del Novecento che, per impulso di Franco Carmelo Greco, si fece strada intorno al Cetrulo di Acerra un nuovo fermento. L’opera di Lello Esposito è la testimonianza più toccante di una metamorfosi interiore che di Pulcinella muta anche le fattezze. Ecco che il villano ridicolo e scurrile si fa serio e assume su di sé i dolori dell’umanità intera. Le storie che Torre ci racconta si innestano perfettamente in questa parabola.