Chi, in questi ultimi tempi, non ha sentito parlare delle baby gang e delle stese, con particolare riferimento al rione Sanità, cuore storico di Napoli? Nel nuovo romanzo, Alcuni avranno il mio perdono, di L. R. (cioè Luigi Romolo) Carrino le stese coinvolgono tutta la città. Carrino vi riprende la protagonista del precedente La buona legge di Mariasole (e/o, 2015), capo del clan camorristico Acqua Storta (Meridiano zero, 2008) al quale era dedicato il romanzo omonimo e del quale dunque si prosegue la saga. Libro cruento, anche questo recente, dalla scrittura carnale, e sanguinolenta: “in questa città il sangue non si ferma mai”. Protagonista, insieme alla camorra, è la città, la cui toponomastica e le cui strade vengono sviscerate, proprio come nel corpo di un’animale squartato. Chi conosce Napoli, può spostarsi, seguendo le righe di Carrino, nel suo corpo infetto, infetto come quello di tutte le grandi città di mare: pensiamo alla Marsiglia di Jean-Claude Izzo. Protagoniste ancora sono le donne, a partire da Mariasole Simonetti, Vient’ ’e terra, vedova del boss Giovanni Farnesini, al quale lei subentra nella perenne lotta contro il clan dei Musso. Donne che comandano, e che sparano: uccidono e vengono uccise. Protagonisti sono qui soprattutto i ragazzi, come il minorenne Antonio Farnesini, il figlio di Mariasole, che aspira a un proprio ruolo di giovane boss nel controllo dello spaccio delle droghe leggere che gli adulti concedono ai più giovani; e il fratello Arturo, che narra in prima persona e che il padre, come si capirà nel corso della storia, ha avuto da un’altra donna. Se Antonio intraprende la carriera criminale, Arturo, pur disposto a correre rischi per aiutare colui che non sa di essere suo fratello, se ne sta in realtà de lato rispetto al mondo del mala are. Antonio è il capo di una di queste baby gang, o paranza re criatrure: diventata famosa in questo costrutto, la parola “paranza” indica ogni associazione di persone che persegue un obiettivo comune; paranza, per esempio, è quella dei pescatori che fanno parte dell’equipaggio di una barca, e così via. Paranze di ragazzi si affrontano a colpi di pistola per le vie di Napoli: si spara, ferendo e ammazzando per punire qualcuno, o anche solo per a fermare il proprio predominio in un certo quartiere; sono le famigerate stese che riguardano ogni angolo di Napoli. Infatti: “La città dice che si muore anche se uno non c’entra nulla, anche se hai un negozio che non ha niente da spartire con il nemico di suo figlio, anche se uno va a fare la spesa e cerca di fermare un malintenzionato. Perciò, dice la città, è meglio che ti fai i fatti tuoi se vuoi continuare a vivere”. Protagonista è anche Rosa, figlia di Musso del clan rivale, della quale si innamora di un amore impossibile, come in una rinnovata tragedia shakesperiana – e al Romeo e Giulietta ci sono puntuali riferimenti che tramano il racconto stesso –, Antonio, il figlio di Mariasole: e ciò determinerà un fatale crescendo nella guerra dei due clan.
E la città è presente nel romanzo non solo con le sue strade, ma anche con la sua lingua che innerva la scrittura di Carrino e la colora in modo inequivocabile (accanto a squarci di monologo interiore), pur non emulando il pastiche di Camilleri, da un lato, e non sortendo, nonostante la crudezza, gli e etti di volgarità del napoletano di cui fanno uso i protagonisti della fiction Gomorra: manca nel libro il sonoro, e la cadenza di quelle voci deve essere solo immaginata. Mentre non è immaginato, nel libro, lo scempio di una città.