Ci sono stati anni in cui non potevo spostarmi da casa per motivi con cui non amo tediare il prossimo. Durante quel periodo una persona cara, che invece gira il mondo, mi concedeva racconti di viaggi. Bevevo ogni parola fino all’ultima goccia di minuzia.
Il dato insostituibile di quei racconti era la vicinanza al privato mio e suo, al nostro passato comune. Che ne so, nel racconto potevano intervenire frasi tipo: te la ricordi la signora Ego Mi Assolvo? Beh, ho viaggiato con una donna come lei. Immagini? La voce mi arrivava quasi sempre da un telefono fisso e il racconto non aveva nessuna pretesa fondante o di chissà quale arricchimento. Erano resoconto preciso e compagnia; viaggiavo anch’io, da ferma, come in genere mi succede con le letterature.
L’abitudine di quelle descrizioni si è interrotta quando ho ripreso a viaggiare. La persona cara di cui ho detto preferisce l’essenzialità: puoi viaggiare di nuovo? Puoi anche raccontarti i viaggi da sola. Ma quando tre anni fa Paola – la persona cara si chiama Paola – è stata per un lungo periodo in Cina, al ritorno mi ha chiamata in una sera d’inverno e siamo state tutta la notte al telefono. Credo che per una volta il racconto servisse più a lei che a me. Ripeteva che l’esperienza recente faceva parte di quei ricordi ribelli che scappano da tutte le parti. Diceva che non si era mai abbandonata in quella maniera a un luogo e perciò aveva perduto lucidità.
Aveva conosciuto una ex bambina fantasma, una donna che per lunga parte della sua esistenza non aveva avuto identità; la sua famiglia voleva discendenza maschile e per la regola del figlio unico aveva scelto di tenerla nascosta, di non denunciarla all’anagrafe, per poter accogliere il figlio maschio con tutti i crismi della legalità. Ripeteva: io di identità ne ho troppe, lei per mezza vita non ne ha avuta nemmeno una.
Il modo di raccontare di Paola era diverso dal solito; saltava da un argomento all’altro, non segnalava con la consueta precisione date e luoghi. Parlava della ex bambina fantasma, come fosse un intercalare che torna nonostante la volontà di evitarlo, aggiungeva particolari crudeli, poi cercava di riprendere il filo del discorso. Era turbata da riflessioni esistenziali che comprendevano lei, la bambina senza identità e la bambina che era stata e che non aveva di certo vissuto in un Eden garbato.
Faceva confusione, la stessa confusione che mi sorprende ogni volta che mi si presenta l’inventio di un romanzo e la sua relativa necessità. Relativa, perché riguarda me, non ho presunzioni di oggettività.
Mi ero già occupata della Cina per un libro per ragazzi pubblicato dalla casa editrice Sinnos, ho ripreso a studiare. Ho scomodato una libraia particolarmente preparata, mi sono fatta aiutare nella bibliografia, ma non mi è bastato. Sono stata a frugare in archivi, ho visto film, ho cercato documentari e altre testimonianze. Ho chiesto aiuto a un’amica esperta di politica internazionale per cercare per lo meno di ordinare sommariamente una costruzione storico-cronologica di quel Paese, che per i trascorsi complessi non mi consentiva comprensione sistematica del suo passato, ma anzi confondeva le suggestioni sui fatti storici in un ordine sparso, privo di scheletro portante. Basterebbe la controversa figura di Mao, soltanto la sua celebrazione degli anni Settanta, a disorientare la comprensione dei fatti.
Al Salone di Torino di due anni fa, ho comunicato a Simona Olivito della casa editrice E/O, che avevo intenzione di scrivere quel romanzo, proprio quello. La mia decisione è stata accolta. Quando ho cominciato il lavoro, ho avuto un bel confronto con l’editor, Claudio Ceciarelli, che mi ha messo in guardia sulla mia proposta delle quattro voci narranti. Non avrei dovuto cadere nell’errore di rendere alcuni personaggi fagocitanti rispetto agli altri, tutti e quattro dovevano avere la stessa potenza di voce. Il linguaggio delle prime persone doveva necessariamente cambiare, ma lo stile doveva rimanere coerente. La scelta di un romanzo più breve dei precedenti doveva scongiurare il risultato di una scrittura monca, quella che non sazia.
I rischi erano numerosi, li ho accettati con entusiasmo: se c’è una cosa che mi attrae è la sfida della lingua, della sua parziale ingovernabilità. In questo somiglia alla terra che volevo raccontare. L’epifania di un senso o di una descrizione, il suono della frase, l’anarchia dell’immaginario, il contingente quotidiano che si insinua senza volontà apparente mentre scrivi e molti altri elementi, anche tremendi, restano per me passione invincibile.
Ho delineato personaggi abbastanza scabrosi, me ne rendo conto, nessuna assoluzione compiaciuta per loro se non la tenacia dell’esistenza che resta per me un mistero bellissimo da non approfondire troppo per paura di risolverlo nel suo contrario.
Ho proposto nella narrazione temi in apparenza opposti, in realtà confinanti o consequenziali: la schiavitù sessuale e il matrimonio bianco; identità assenti e multiple; la vita da preda e la sua rivoluzione; i dogmi ideologici e la fallibilità delle certezze; paternità rifiutata e incesto; il bene materno di salvezza e indebolimento; l’estraniamento e l’appartenenza; l’amore carnale e la tregua per i disamorati.
La Cina è rimasta inconoscibile nonostante gli studi fatti e gli aiuti ricevuti. Anche una parte del romanzo è restata per me un’incognita. Sento spesso dire da colleghi che i personaggi si impongono alla loro scrittura, che intervengono dall’esterno quasi. A me capita di cercare di valutare preventivamente intrecci, personaggi, dinamiche narrative. Mi impegno per cercare di non deludere il lettore, lezione che ho imparato soprattutto dalla scrittura per ragazzi. Eppure so che ci sarà una porzione di quello che scrivo che dovrà sorprendere la mia parte vigile, che dovrà offendere i propositi, ma non perché esterna a me, probabilmente invece perché pesca in abissi privati dotati di poca luce.
Con La Figlia Maschio mi è successo più che con altri romanzi.