La varietà di direzioni e intonazioni che Patrizia Rinaldi imprime alla sua scrittura, dimostrata dal noir letterario della trilogia di “Blanca”, con l’affondo memorialistico e storico di “Ma già prima di giugno”, e offrendo un ampio ventaglio di storie con la narrativa per ragazzi che le hanno fatto ottenere il Premio Andersen per due anni di seguito, è confermata da “La figlia maschio”. Un ulteriore cambio di rotta in un nuovo territorio da esplorare con un romanzo rapsodico in cui quattro voci offrono la propria versione, una ricostruzione, o verità di comodo, di un viaggio in Cina a metà degli anni Novanta, occasione che dirotta verso cambiamenti e punti di ritorno le loro vite. La prima è di Marino, affarista spregiudicato, molto abile, in perenne guerra con il mondo aggredito con disprezzo e una scaltrezza affinata dall’amarezza, un uomo spudorato e osceno in tutti i suoi sentimenti, che di malavoglia ha accettato l’invito di sua moglie Felicita e dell’altra coppia, Sergio e Anna, di scoprire le meraviglie della Cina. Infatti stanco di giri turistici tra pagode e teatro con ombre cinesi si avventura nella campagna fuori Hangzhou in compagnia di Sergio, che è anche un suo dipendente, trattato come un servo, e lì vede, china tra i campi, una giovane, Na. Eccitato, accecato dall’ennesima possibilità di conquista segno della sua onnipotenza, bracca la ragazza, la raggiunge. Farà di tutto per portarla con sé, in Italia, e farla sua concubina corrompendo funzionari, acquistandola dal padre. Na, una ragazza invisibile, una delle tantissime della politica di controllo demografico del governo cinese, sarà la sua delizia, croce, maledizione, forse un balsamo a dolori nascosti, di certo il primo errore di valutazione. Poi c’è Felicita, la moglie di Marino, apparentemente remissiva, che soggiace alla volontà e alle forzature del marito, costretta da sguardi che spengono ogni suo desiderio e la nullificano. Quando scopre le vere motivazioni che hanno spinto Marino a liberare Na da presunti soprusi, inizierà un percorso di rinascita che passa attraverso nuove delusioni dopo il gioco seduttivo con Davide e l’intenzione di voler incontrare la giovane cinese.
Sergio, invece, in un continuo cambio di prospettive e approcci al ratto di Na, l’intellettuale disilluso, da mite complice di Marino in cui rivede la violenza della figura paterna da assecondare, si innamora della giovane, un amore fatto di desiderio ma anche di sentimenti di redenzione; un’espiazione quasi paterna. E infine, nella rapsodia di sentimenti dolci e osceni, di possesso e non amore, c’è Na, come se dopo tanto rumore stesse in attesa di esporre la propria voce, scrollandosi di dosso la violenza di quei padri e padroni reali e presunti. Na che racconta la sua silenziosa attesa, una lotta in cui resta integra anche quando sono convinti di averla piegata.