Qual è “il prezzo del guardare oltre la spalla di Dio?” Perché è proprio questo quanto fece quel manipolo di menti geniali che, all’alba del ventesimo secolo, scardinò tutte le certezze della fisica newtoniana: “guardare oltre la spalla di Dio”. E lo fece pronunciando “con il candore omicida della giovinezza una sentenza di dissoluzione” che trasformò “i componenti ultimi della materia in creature del limbo, più pallide e trasparenti dei fantasmi”, tentando di trovare le parole adatte per dire “ciò che non può essere detto e che tuttavia deve essere detto”, per descrivere un mondo in cui “nessuno può essere chiaro e preciso insieme”, in una sorta di declinazione logica del principio di indeterminazione che dà il titolo al romanzo.
Le prime due parti, le più belle, sono una sorta di lettera aperta ad Heisenberg in cui Ferrari ne ripercorre la brillante carriera fino ai controversi rapporti con il regime nazista, evitando però ogni pedanteria biografica o facile moralismo, consapevole di poter vantare nei confronti di chi in quegli anni dovette scegliere da che parte stare una sola superiorità: quella “conferitaci dalla data di nascita”. La terza parte racconta la detenzione del grande fisico e di altri nove scienziati tedeschi ad opera degli inglesi a Farm Hall. Di fronte al disvelamento degli orrori del regime nazista le reazioni di queste menti brillantissime, in grado di capire “cose che per la maggior parte degli uomini rimangono un mistero”, sono sconcertanti per la loro infantile inadeguatezza, dettate unicamente dal tentativo di sminuire il proprio ruolo, di negare ogni responsabilità. La notizia della distruzione di Hiroshima, però, dissolve qualsiasi illusione di neutralità e innocenza della scienza e loro, in quanto uomini di scienza, perché il cuore di uranio di quella bomba, che aveva “regalato alla morte volti nuovi”, così potente da essere “un’immagine sacra dell’apocalisse”, era stato reso possibile proprio dalle “conoscenze che veneravano”. Chiude il romanzo una sorta di breve epilogo, la parte meno convincente, inquinato a mio avviso da una insistita e vagamente incongrua componente autobiografica.
Un libro percorso da una fitta rete di profondi e drammatici interrogativi: sul ruolo della scienza e sulle conseguenze delle sue scoperte, sulla responsabilità personale e sul libero arbitrio. Domande che non trovano risposta all’interno del suo perimetro narrativo, né potrebbero farlo, e che sono ancora e sempre lì, davanti alle nostre coscienze. Perché Prometeo siamo noi, disposti come lui a pagare qualunque prezzo per “guardare oltre la spalla di Dio” sapendo, in cuor nostro, che non c’è “niente di più bello” di quel che si vede da lì.