Qualcuno ricorderà un film di quasi vent’anni fa, intitolato “Shakespeare in Love”, diretto da una mia vecchia conoscenza, John Madden. L’opera in sé non era memorabile, anche se possedeva una sua grazia spedita e beffarda, oltre ad avere tra i protagonisti una meravigliosa e allora molto giovane Gwyneth Paltrow.
Si trattava di una commedia niente di speciale sul grande drammaturgo di cui poco e nulla sappiamo, ma che tuttavia conteneva una felice intuizione: l’idea che la scrittura sia un processo involontario, che sembra non di rado prescindere dallo stesso autore. In questo senso, il film finiva col condurre quasi senza volere al cuore della poesia di Shakespeare e alla sua genesi più segreta. Ecco: ho pensato qualcosa di simile, leggendo “L’età d’oro” (e/o, traduzione di Silvia Castoldi, pp. 229, € 16,50) dell’australiana Joan London (1948). Anche in questo caso: un’opera francamente non eccelsa, fra l’altro con un finale precipitoso e fin troppo scontato, pare avvicinarci con semplicità al mistero della scrittura, svelandolo con naturalezza.
Il romanzo ci porta negli anni Cinquanta del Novecento e, a tratti, anche prima, durante la Seconda guerra mondiale, in Europa. Il protagonista, il piccolo Franck Gold è figlio di una coppia di ebrei sopravvissuti all’Olocausto e riparati in Australia. Il ragazzino purtroppo contrae la poliomelite e così viene ricoverato nel sanatorio che dà il titolo al libro.
La storia, ancorché narrata con pudore, contiene molti spunti prepotentemente patetici: il coro dei bambini ricoverati fa pensare a un testo edificante per giovani menti. E la storia d’amore che nasce tra Franck e la compagna di corsia Elsa non serve certo ad abbassare i toni: che infatti sono qui e là caramellosi e in generale un po’ corrivi.
Tuttavia, si nasconde in questa storia affollata di sentimentalismi un’inattesa riflessione su come nasce la poesia, che non ha nulla di banale.
Franck capisce di sentire le parole in maniera diversa dai coetanei: le vede stagliarsi davanti agli occhi, partorite dalla realtà, per trascriverle quasi senza comprenderne il senso, che si ricompone nel suono come l’immagine riflessa che finalmente aderisce all’originale.