Una scrittura potente, dura, incalzante, quella a cui ci hanno abituato i romanzi di Patrizia Rinaldi che anche ne “La figlia maschio”, questo ultimo libro, appena pubblicato da E/O, non smentisce le sue qualità di narratrice forte, molto napoletana, se si può usare questo aggettivo che sembra accomunare diverse scrittrici partenopee, penso a Wanda Marasco, a Antonella Cilento, a Valeria Parrella.
Patrizia Rinaldi costruisce una storia che quattro diverse voci narranti mettono in scena: quattro capitoli, quattro nomi diversi, quattro punti di vista per raccontare ciò che è avvenuto nella vita dei protagonisti dopo un viaggio in Cina, alla fine degli anni Novanta quando, al seguito del Presidente Pertini, Anna, una interprete di cinese moglie di Sergio, convince a partecipare al viaggio anche Marino, un ricco e potente personaggio, esponente di una criminalità non ancora venuta allo scoperto, e sua moglie Felicita. I quattro raggiungono una città, Hangzohu, detta la Venezia cinese, ma i due uomini si allontanano e, in piena campagna, dove Marino progetta chissà quale avventura, in mezzo all’erba, appare una giovane donna bellissima, flessuosa, coperta da capelli corvini, di cui l’uomo crede di essersi preso in modo devastante. Farà in modo che la ragazza, che vive solo con un padre anziano, munita di falsi documenti, possa lasciare il suo paese e venire a Roma: lei non è stata registrata alla nascita, è priva di identità, è un oggetto di piacere che il violento ed arrogante Marino può comprare. All’insaputa di sua moglie, l’infelice e sofferente Felicita, la giovane Na verrà sistemata in una casa fuori Roma, guardata a vista da una governante, in attesa delle saltuarie visite del padrone. Anche Sergio però sarà complice di questa vicenda di larvata schiavitù, anzi l’uomo, geloso del suo capo, si innamorerà della bella cinese, sempre più misteriosa, disponibile al sesso ma non certo ad un rapporto vero, al di fuori di questo.
Il fascino de “La figlia maschio” sta nella ricostruzione che di questa vicenda fanno le voci dei protagonisti, capaci di svelarci i retroscena, i tradimenti, gli intrighi che si sono svolti nel backstage della trama: inutile rivelare i particolari inquietanti della vicenda, che Patrizia Rinaldi sa mescolare con una abilità da narratrice consumata: la biografia di Na, la sua origine, la sua sofferenza, ci trascinano all’interno di una Cina crudele e sconosciuta, di cui ignoriamo la violenza sociale, la mancanza di diritti elementari, il destino atroce delle donne e delle figlie femmine da loro disgraziatamente partorite. La vita insulsa e drammaticamente infelice della insegnante Felicita, racconta la insensatezza di una esperienza borghese come moglie, ripudiata, di un affarista che ha bandito la legalità dai suoi affari e che ne pagherà altissimi prezzi.
Ne “La figlia maschio” compaiono diversi ambienti, alcuni personaggi minori, uno spaccato sociale che da Roma si allarga fino a Napoli, dove si conclude la storia.
Libro da leggere con attenzione, tanti sono i particolari, dettagli, sfumature che costruiscono uno scenario attuale che si chiarisce attraverso le pagine finali del romanzo: il tema dell’identità, dell’appartenenza, dell’apprendere una cultura altra, l’accettazione del proprio corpo non solo come merce da acquistare e consumare ma come punto di partenza per costruirsi come persona: sono questi alcuni degli spunti originali de “La figlia maschio”, romanzo nel quale l’amore compare solo nei confronti della donna che Na aveva riconosciuto come madre, la madre perduta a cui lei dedica uno struggente addio fatto di parole sussurrate al vento
“La purezza crudele ha avuto un prezzo che non si può quantificare. Sei la sola per cui ho rinunciato, a cui ho elargito mie sofferenze per controllare le tue. Provavo amore e risentimento… Il bene fiacca, cara Pah-Tu, ormai lo sapevo fin dentro le carni offese…”
Ecco il lessico di Patrizia Rinaldi, ecco le sue frasi intense, la sua profondità di scavo psicologico, il coraggio di dare alle cose il loro vero nome, servendosi di tutti i registri linguistici, dal più letterariamente raffinato a quello più violento, pur di conferire ai suoi personaggi realismo e credibilità. Marino può affermare:
“Io sono meglio di tutti a salire: mi arrampico persino sugli specchi scivolosi di saliva, quella che hanno sputato addosso a me e pure al suo riflesso”.