A distanza di oltre trent’anni dalla lezione di Italo Calvino sulla leggerezza, dove la ricerca della levità come reazione al peso del vivere, e la capacità di «contemplare il proprio dramma come dal di fuori e dissolverlo in malinconia e ironia» venivano indicate come la pricipale consegna al futuro millennio, non sembrano molti gli autori ad avere fatto tesoro di questo consiglio: se gli altri valori proposti nelle Lezioni americane – rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità – trovano riscontro, in misura maggiore o minore, nella narrativa contemporanea, più difficile è inventariare romanzi o racconti in cui non prevalga la volontà di «comunicare al linguaggio il peso, lo spessore, la concretezza delle cose, dei corpi, delle sensazioni».
Per questo, un romanzo come L’età d’oro (e/o, traduzione di Silvia Castoldi, pp. 240, euro 16,50) della scrittrice australiana Joan London, al tempo stesso provoca stupore e fascino. Fra le sue pagine si muovono corpi malati, senza gravarne il peso sia fisico sia emotivo; e d’altra parte Joan London riesce ad affrontare la sofferenza infantile, lo spaesamento, la migrazione, la guerra, l’Olocausto sottraendo peso ai disastri della Storia adulta per lasciarne alla grazia delle piccole storie infantili, e alleggerendo la cronaca per far posto alla irruzione della poesia.
Il Golden Age del titolo è un vecchio pub di Leederville, un villaggio nell’Australia Occidentale, riconvertito in ospedale per bambini malati di poliomielite nei primissimi anni cinquanta, quando una epidemia flagellò l’intero continente. Qui si incontrano – e si innamorano – Frank e Elsa, due tredicenni, i più grandi tra i ragazzi ricoverati: lui, figlio di colti immigrati ebrei ungheresi, malgrado la giovanissima età ha già vissuto durante la guerra esperienze traumatiche, e perciò indelebilii; per lei, primogenita di una famiglia operaia australiana, il dolore più grande è non poter più correre sulla sua bicicletta o nuotare nell’oceano. Lui è bruno, piccolo per la sua età, ma intelligente e vivace; lei, con i suoi boccoli biondi e la sua costante serenità, ha la placida bellezza di una piccola madonna rinascimentale.
Il contatto continuo, il quotidiano vivere insieme, il sottoporsi agli sforzi della palestra, il lavorare sui propri corpi fianco a fianco, li porta ad abituarsi alla reciproca fisicità, sino a fare del Golden Age una sorta di mondo parallelo illuminato dal sentimento che scoprono di provare l’uno per l’altra. «Quand’è che tutto aveva iniziato a cambiare?» riflette Elsa, ripensando al suo rapporto con il ragazzo. «All’improvviso il viso di Frank le era divenuto familiare. Non bello, non brutto, ma uguale al suo, una specie di gemello, uno specchio. Il loro legame sembrava colmare l’aria che li circondava. Dal momento in cui si svegliavano, alla luce che splendeva dietro le lunghe tende bianche dei loro dormitori separati, aspettavano solo di riunirsi».
Precocemente cresciuti a causa della malattia e della conseguente separazione forzata dalle famiglie (separazione che, per il ragazzo, sembra inizialmente ripetere quella impostagli nella prima infanzia dal nazismo in Ungheria), Elsa e Frank appaiono più maturi dei genitori, i quali faticano a venire a patti con la disgrazia che si è abbattuta sulle loro famiglie. Mentre la madre di Elsa è confusa di fronte alla malattia della figlia e per questo incapace di portarle conforto, i genitori di Frank (che tra loro, a volte, continuano a chiamare il loro unico figlio con il suo nome ungherese, Ferenc) sono sconvolti dall’infermità del ragazzo, interpretata quasi come un proseguimento, all’altro capo del mondo, delle sciagure di cui sono stati vittime durante la guerra.
Iniziazione alla poesia
Tuttavia, mentre il padre, facoltoso uomo d’affari in patria, reagisce e trova soddisfazione anche nel lavoro di camionista cui si adatta in Australia, la madre, brillante pianista in Ungheria, rifiuta il paese in cui si trova, che le appare deserto e inospitale, e vive nel ricordo di un passato europeo precedente alla guerra e ormai perduto. La diversa accettazione della loro condizione di migranti non può che creare un contrasto tra i due coniugi: mentre la moglie insiste nel suo sdegnoso rigetto del contesto australiano, il marito comincia ad apprezzarne non solo le bellezze naturali, ma anche le persone che lo popolano, prima fra tutte l’infermiera Olive Penny, amatissima dai bambini del Golden Age.
Ritratto a tutto tondo di una donna indipendente e responsabile, i cui comportamenti emancipati – soprattutto in campo sessuale – appaiono in largo anticipo sui tempi, Olive Penny è una delle tante figure del romanzo che restano impresse per la loro vivacità e vitalità. Del resto, nell’Età d’oro anche i personaggi di secondo piano sono costruiti con un’attenzione tale da renderli unici e collocati sullo sfondo di una minuziosa ricostruzione degli anni cinquanta australiani, a confermare che – come scriveva Calvino – «la leggerezza … si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso».
Non c’è nulla di indeterminato o di casuale, infatti, nel romanzo di Joan London: attentissima, per esempio, è la ricostruzione degli ambienti e dalla vita nel Golden Age, sanatorio pediatrico realmente esistito tra il 1949 e il 1959, mentre alla scoperta del vaccino antipolio lavorava il «giovane e attraente medico ebreo Jonas Salk»; così come ben restituita è la visita in Australia, nel 1954, della regina Elisabetta, accompagnata dal suo impettito «principe soldato dal volto risoluto», e vivace la resa della condizione dei neo-australiani, alloggiati al loro arrivo nel nuovo continente in baracche di fortuna.
Fra tutti i caratteri minori, si impone un giovanissimo poeta imprigionato nel polmone d’acciaio, Sullivan, che Frank incontra al Royal Perth Hospital, in cui è ricoverato prima di approdare al Golden Age. Poiché non ha modo di usare carta né penna, Sullivan, che scrive versi nella sua mente, introduce Frank al piacere della poesia, gli insegna che essa non deve necessariamente ricorrere alla rima o a espressioni auliche: «La poesia non doveva per forza trattare di gesta eroiche… Poteva anche somigliare alla voce di qualcuno che parlava. Poteva descrivere eventi personali».
È Sullivan, dunque, a fare di Frank un poeta, suggerendogli, in primo luogo, di abituarsi alla propria condizione, poiché è allora che «l’immaginazione torna libera» e diventa possibile, dal fondo di un polmone d’acciaio, immaginare la neve In Australia guardando un soffitto. Lo stesso Sullivan consegnerà a Frank, alla vigilia della sua morte, pochi versi che suonano quasi come una mise en abyme dell’intera vicenda: «La tragedia è rimasta a casa / con le nostre madri e i nostri padri /… / Alla fine siamo tutti orfani». Lasciando l’ospedale degli adulti per il Golden Age, Frank è pronto a raccogliere il testimone di Sullivan. In Elsa riconosce la sua musa e il soggetto privilegiato dei suoi versi: la loro delicata storia d’amore si apre un varco nella malattia, nonostante lo spaesamento e la sofferenza.