È una storia d’amore. Lui, Franz, l’io narrante, è un musicologo austriaco. Lei, Sarah, è un’etnoantropologa francese. Entrambi si occupano appassionatamente di Oriente islamico. Lui è timido, impacciato, tutt’altro che intraprendente; e adora lei, ardita, curiosa degli aspetti più reconditi della cultura dei popoli che hanno abbracciato l’Islam, sempre in viaggio di ricerca, sempre a sfidare ostacoli e barriere, la vampa di capelli rossi come insegna. Si conoscono da dottorandi a un convegno in un castello austriaco carico di memorie turchesche; e per anni continuano a incrociarsi e talvolta a collaborare in convegni e in istituti di ricerca europei e asiatici, lui sempre ritroso, lei apparentemente disattenta. A distanza si tengono informati sui rispettivi studi. E ogni incontro, ogni scambio di email è l’occasione per far emergere una messe inesauribile di particolari sconosciuti della lunga storia d’amore e morte tra Occidente europeo e Oriente islamico, in cui imprestiti e doni reciproci, nella “costruzione comune della modernità”, sembrano addirittura prevalere sugli eccidi e i conflitti, mostrando un intreccio di civiltà che è salutare antidoto ai luoghi comuni oggi correnti.
Gronda erudizione ricca spesso di sapidi aneddoti e di importantissimi personaggi chiave, questa storia d’amore: non c’è angolo della musica e della letteratura europea, turca, persiana, araba che non venga illuminato di luce nuova, da questo sguardo appassionato di chi sa ed è perfettamente consapevole dell’orribile china che sta prendendo di questi tempi il rapporto tra l’Europa e una parte del mondo islamico. Una barba noiosissima per topi di biblioteca? Tutt’altro: se ne vuol sapere sempre di più, si vorrebbe che non finisse mai. Perché è la nostra storia, questa, ci riguarda molto da vicino. Ciò che sapevamo finora di noi stessi, perfino la dura critica di Edward Said al nostro “orientalismo”, assume nuovo aspetto. Insieme con la spocchia arrogante dei colonialisti c’è stato l’amore e il rispetto dei grandi, verso quella cultura “altra” per eccellenza: bastino – oltre al sommo Goethe, che col West-östlicher Divan ha creato il più sincero omaggio che la poesia europea potesse rendere a quella persiana – gli esempi di Byron, de Nerval, Rimbaud, Pessoa...
La storia è vivace. Una notte il gruppo di giovani ricercatori si accampa, in barba ai divieti, alle porte di Palmira. I due dormono nella stessa tenda, lui non chiude occhio per timore di essere inopportuno perfino sfiorandola. La mattina i turisti in visita, attoniti, vedono emergere dalle tende giovani in mutande. Ma una notte di passione c’è, finalmente, in una casa di Teheran: fra le tante superflue e barbose scene erotiche della narrativa contemporanea, una delle rarissime di cui si avverta la delicata e decisiva necessità ai fini del racconto. Ma non è lo happy end.
La vicenda, con tutte le sue affascinanti digressioni culturali, è rievocata dal protagonista, ormai docente all’università di Vienna, durante una lunga notte insonne. Da tempo è gravemente malato. Lo hanno informato quel giorno della prognosi pessimistica. Scrive a lei che, ignara delle sue condizioni, si trova nel Sarawak, in Indonesia, per aver notizie. Butta lì: non è che torni in Europa? Arriva subito una risposta inattesa: Sarah ha deciso di raggiungerlo e di restare con lui. La luce dell’alba comincia a filtrare dalla finestra.
Non sappiamo come scriva Énard (di per sé il Goncourt, vinto nel 2015, non dice niente, come il nostro Strega): non conosciamo il testo originale né, comunque, conosceremmo abbastanza il francese. Ma Yasmina Melaouah (recente reduce, tra l’altro, da una nuova traduzione di La peste di Camus) scrive benissimo: tiene l’appassionante narrazione con polso saldo e insieme con delicatezza ed eleganza, come si addice a una grande profonda storia di civiltà, amore e morte.