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Patrizia Rinaldi: «Salvata dal Fuggiasco».

Autore: Antonio Menna
Testata: Il Mattino
Data: 11 luglio 2017

«I romanzi sanno tutti i fatti tuoi». Lo sussurra, Patrizia Rinaldi, quasi a voler invocare la calma. «E si prendono la briga di spiegarteli meglio. L’ho capito definitivamente una volta che facevo la spesa di libri per un’estate travagliata». A domandarle di indicare un libro che ha segnato una sua estate, si rischia di aprire un forziere senza fondo. Di libri, deve averne amati molti, anche se lei stessa, poi, ridimensiona. «Pure il libro migliore non basta», dice. Ma a volte salva. Alla fine sceglie Il Fuggiasco, di Massimo Carlotto, la storia vera e travagliata della sua fuga per il mondo. «Trovai folgorante l’incipit: Ho un passato ingombrante. Per metterlo da parte e pensare finalmente al futuro ho dovuto usare cinque grandi casse di legno. Era quello che dovevo fare anch’io che, invece di fuggire, mi ero nascosta in una delle casse».

Poi che successe?

«Il Fuggiasco mi ha in parte salvata dalla mia gabbia e dalla fuga nella solitudine: l’ardimento, il dolore masticato dall’ironia, la resistenza contro le circostanze ingiuste. Ma non da solo, naturalmente. Ha aiutato a scoperchiare una pentola. Un altro libro che segna i miei tempi estivi è Il fucile da caccia di Yasushi. Lo rileggo quasi ogni estate. Mi serve a ricordare che la modernità si può trovare anche in un romanzo di molti anni fa e che gli amori possono, almeno nelle parole, trovare la perfezione».

Almeno nelle parole. Per questo scrivi.

«Scrivo da sempre. L’idea della narrazione, per me, è legata da sempre al sollievo».

Le storie come cura.

«Mi è parso, fin dalle storie brutte che scrivevo da piccola, che il dolore e il suo contrario trovassero nelle parole segnate un luogo più sopportabile e maggiore dignità». Scrivi storie per ragazzi e scrivi romanzi gialli e non solo per gli adulti: con quali differenze? «Quando scrivo per i ragazzi avverto la responsabilità della speranza, quando scrivo per gli adulti no».

Con differenze nello stile e nei temi.

«Direi che per il resto non cambia niente, la scrittura ubbidisce alla storia che desidero raccontare, faccio il possibile perché non si snaturi. Mi pongo il problema di rispettare chi mi leggerà e di rispettare anche i contesti narrativi nei quali muovo le storie».

Pensi più al futuro o al passato.

«Penso a quello che deve succedere a breve. Anzi, mi esercito a pensare così. Quando scrivo invece posso andare dove mi pare, nel tempo e nel luogo che preferisco».

Com’erano le estati della tua infanzia.

«Legate soprattutto a un luogo: Gaeta. Anzi, la spiaggia di Serapo. Non quella di adesso, quella di quando c’erano le dune non ancora addomesticate in pianura di sabbia. Le scalate e le cadute erano tutte le avventure possibili che avrei vissuto. Quelle che ancora non conoscevano smentite, ma solo smania di una certa felicità».

I tuoi romanzi, quelli del ciclo di Blanca per esempio, sono ambientati a Napoli, anzi nei Campi flegrei.

«La mia città, la mia zona. Non sono mai andata via dai Campi Flegrei. La mia casa di Fuorigrotta ha visto spuntare il mare qualche anno fa all’improvviso. Avevano abbattuto parte dell’Italsider e questo ci ha consegnato di colpo la vista. Qui sono nata: caldere, equilibrio incerto, mare, zolfo, buio e eccessi di luce mi fanno sentire a casa». Come ricordi Napoli d’estate negli anni della tua adolescenza? «Pigra, calda, con i libri, i dischi e i fumetti dentro la penombra della stanza. Durante la prima adolescenza potevo uscire poco, per motivi con cui non amo affliggere il prossimo. La mia risorsa indoor era scappare dalla camera, restando».

Qual è la stagione giusta per Napoli.

«Quei due o tre giorni di primavera a precipizio dopo l’inverno».

Una cosa che ti piace di Napoli e una che odi.

«Amo la sua bellezza e la sua cultura, odio le bellezze incancrenite per malaffare e criminalità».

Da ragazza che sogno avevi?

«Diventare scrittrice, ma mi sembrava un sogno presuntuoso, anche perché avevo intorno adulti intelligenti che me lo facevano notare».

E poi come ti sei fatta strada? Come l’hai fatta soprattutto dentro di te, nella convinzione di poter dire qualcosa di rilevante a qualcuno.

«Con molte insicurezze, un senso perenne di inadeguatezza. Combattuto a fatica. I premi letterari che ho vinto mi hanno difesa dai dubbi che avevo e che tornano».

L’ultimo è l’Andersen. Forse il premio nazionale più importante per la letteratura per ragazzi.

«Sì, l’anno scorso come miglior scrittore, quest’anno come miglior libro a fumetti, con La compagnia dei soli. È un premio prestigioso, che mi ha concesso un onore indelebile e tante conferme. Ma prima ancora ho scoperto di essere apprezzata da persone che hanno la mia stima da sempre. Quando le incertezze tornano, mi dico che la devo piantare».

A che lettore pensi quando scrivi.

«Scrivo per essere letta, naturalmente. Scrivo per incontrare sguardi. Però mentre scrivo non penso al dopo. Come sarà accolto o non accolto il romanzo è una preoccupazione che non ho. L’incontro con il lettore è un mistero. Chi può dire quali strade farà il suo libro? Mi piacciono, certo, i lettori che non cadono nelle trappole di chi vuole piacere a tutti i costi. Il lettore bello è quello anarchico e libero. È anche quello più impegnativo, naturalmente. Ma nessuno sogna cose facili».

Un sogno che proverai a realizzare.

«Non ubbidire a dettami che non sono i miei».

C’è un odore che ti riporta indietro nel tempo.

«Il profumo di glicine e di gelsi».

Un profumo dell’estate.

«Il profumo della malvarosa, quello che ti resta appiccicato sulle mani dopo aver toccato le foglie».

Un cibo dell’estate.

«Le albicocche piccole, hanno una dolcezza solo loro. Ma pure molto altro, non sono sobria con il cibo».

Mare, solo mare, la montagna sta bene dove sta.

«Mare a lungo e anche da sola, montagna per poco tempo e in compagnia accettabile».

La tua vacanza ideale?

«Un eremo vista mare e ogni tanto pochi amici scelti».

A fine agosto arriva un nuovo romanzo dal titolo La figlia maschio. Cosa ti aspetti?

«Spero solo di non deludere i lettori e chi ha fiducia in me. In questo caso rivedere il passato recente mi dà forza: i due anni di lavoro intenso, la passione, i dubbi, l’impegno per fare bene, i dialoghi con il mio editor sono il mio riferimento bello. Cerco di superare l’esame di coscienza e m«i faccio bastare la promozione».

E dopo?

«Scrivo e incontro soprattutto i ragazzi nelle scuole».

E dopo ancora?

«Scriverò. Nonostante i dubbi, non posso farne a meno».