Uno spettro si aggira per l’Europa ma non è più lo spettro del comunismo: è il fantasma della stessa Europa. Al giro del secolo un’università olandese sottopose a 33 scrittori europei un questionario sull’identità europea. Le risposte furono unanimi: tutti negarono di sentirsi scrittori europei. La negazione di quell’identità attinse a motivazioni diverse: rifiuto dell’etichettatura, sentimento di cittadinanza planetaria, preferenza per un immaginario letterario polimorfico e metamorfico. La risposta più significativa la diede, però, un poeta tedesco: «Sono arrivato troppo tardi, o troppo presto, per l’Europa», disse.
Il rifiuto di quella generazione di fine secolo di sentirsi figli, o padri, della storia europea nascondeva la più generale impossibilità di identificarsi a partire da un rapporto con la Storia. La loro identità labile era il prodotto di una mutazione profonda delle strutture fondamentali dell’esperienza, la loro condizione paradossale di europei rinnegati era quella di chi viva in un’epoca in cui le rotture epocali non si manifestano più sotto forma di guerre e rivoluzioni. La contraddizione consisteva nel fatto che, anche quando accadano guerre, rivoluzioni e cataclismi ambientali, essi non s’impongono più alla vita quali rotture epocali. Quel disconoscimento indicava una frattura e, al tempo stesso, annunciava una sua ricomposizione.
Al centro la guerra ’39-’45
Se guardiamo a buona parte della migliore produzione letteraria degli ultimi 15 anni, scopriamo, infatti, che l’idea di una «letteratura europea» è tornata di grande attualità proprio attraverso la ricerca di un nuovo rapporto con la grandiosa, tragica, epica storia europea del XX secolo da parte di una generazione di scrittori che non l’ha vissuta. Lungo questa strada, la rievocazione narrativa della Storia dopo la sua fine assume un ruolo centrale. Al centro del centro, si accampa la Seconda guerra mondiale, assurta di recente in moltissimi romanzi europei a materia narrativa d’elezione proprio quale apice di un’intensificazione esperienziale divenuta inattingibile.
A raccontarla oggi, si stenta a credere che la Seconda guerra mondiale sia realmente accaduta. Esattamente per questo motivo, in Italia come in Europa, la letteratura dell’inesperienza ne moltiplica i racconti. La conclusione del più grande e terribile evento della storia umana dista da noi settant’anni. Non solo i nostri nonni ma perfino i nostri padri l’hanno vissuto, eppure, se proviamo a misurarlo sul metro delle nostre vite odierne, sbattiamo contro il muro dell’incommensurabile.
Proprio oggi, nel momento in cui la formidabile generazione della ricostruzione postbellica si avvia a esaurire la propria esistenza e la vocazione allo storytelling delle narrazioni politiche è sottoposta a una «coazione alla cronaca» che la condanna all’orizzonte asfittico di un eterno presente, proprio in questo momento il romanzo europeo si rinnova nella ricerca di un diverso rapporto con la Storia. I romanzi che narrano le epopee rivoluzionarie e totalitarie del ’900, i suoi stermini, le sue guerre mondiali, le sue odissee post-coloniali, fioriscono in Europa al principio di questo suo nuovo secolo cronachistico e prosaico. Ancor di più: è la stessa forma romanzo a rifiorire trapiantandosi su questo terreno arato dal cannone di generazioni perdute. Non si tratterà, ovviamente, di romanzo storico in senso tradizionale e convenzionale. Per questa letteratura dell’inesperienza la storia non può essere una semplice materia narrativa loquace e acquiescente; la storia è muta presenza inquietante e minacciosa, è l’assenza che incombe sui presenti, la storia è il convitato di pietra.
Scritture diseredate
Si tratta, dunque, di romanzi che ricercano il perduto sentimento della storia, di romanzi della Dopostoria, per dirla con Pasolini. Libri di confine, di sradicamento e trapianto, che «sussistono, per privilegio d’anagrafe / dall’orlo estremo di qualche età sepolta» e, «più moderni di ogni moderno», si aggirano tra il XXI e il XX secolo «a cercare i fratelli che non sono più». I romanzi della Dopostoria sono, infatti, scritti da una generazione nata subito dopo la fine di tutto questo e subito prima dell’inizio di tutto il resto. L’anagrafe stabilisce la nascita dei loro autori Littell, Enard, Binet, Cercas, Petrowskaja, solo per citarne alcuni a partire dalla metà degli Anni 60, a ricostruzione compiuta, la biografia li vede affacciarsi all’età adulta sul finire degli ’80, in pieno riflusso di ogni superstite, stremata velleità politica novecentesca.
I romanzi della Dopostoria stanno, dunque, in questo paradosso e ne assumono la contraddizione: attingono la propria materia narrativa alla storia epico-tragica del ’900, che ha inaugurato l’era dell’esperienza testimoniale, ma sono scritti da una generazione di non-testimoni inesperti. Sono, insomma, per forza di cose, tutti vangeli apocrifi, sono sostanzialmente romanzi postumi. Non possiedono, infatti, la sola forma di autorità a parlare che essi stessi riconoscono: la vita vissuta. Sono privi di titolarità, di legacy, figli illegittimi, scritture bastarde, diseredate. I loro autori compongono l’ultima generazione raggiunta dall’eco della deflagrazione e la prima a non rimanerne ferita, le loro opere possono riappropriarsi della esplosiva storia novecentesca proprio perché non le appartengono più.
La fame di storia che caratterizza buona parte del romanzo attuale è ricerca di una forza di trascendimento dalla asfittica bolla d’immanenza edonistica in cui abbiamo troppo a lungo vissuto. Il romanzo possibile di un’epica impossibile. Il sentimento della Storia, questa la Patria perduta del nuovo romanzo europeo contemporaneo. Patria perduta e ritrovata. Il romanzo «dopostorico» si annuncia, infatti, proprio in ragione di ciò, come letteratura dell’avvenire. Ci dice che non è più troppo tardi o troppo presto per l’Europa, che il tempo dell’Europa è adesso. Adesso o, forse, mai più.