Combinazioni di arancione
Se all’immagine di copertina del libro togliessimo gli elementi materiali e viventi (l’uomo seduto sulla panchina, uno sciame di piccole macchie bianche e nere - gabbiani? - che volteggiano liberamente sfiorando la superficie marina, una ringhiera che separa terra e acqua), ci si troverebbe di fronte ad un quadro che avrebbe potuto dipingere Mark Rothko, ad un linguaggio figurativo espresso attraverso una relazione che coinvolge il soggetto che guarda e l’oggetto guardato. Il colore arancione, infatti, con le sue variazioni cromatiche di rosso e marrone caratterizza una composizione di bande orizzontali che attraggono l’osservatore, il quale viene catturato all’interno della composizione e immerso in una rappresentazione che appare indecifrabile per il suo astrattismo. E allora sono gli stessi “oggetti” della messa in scena a renderne comprensibile il senso drammatico di imprigionamento e oppressione, della tragedia esistenziale del nascere vivere morire. Così all’energia centrifuga del colore che si irradia verso l’esterno e che si materializza nella scia di piccole macchie che disegnano un movimento dinamico si contrappongono la linea di una barriera di assi e un uomo sdraiato su una panchina in contemplazione, che si limita a guardare, chiuso nei suoi pensieri, quasi non toccato dal flusso vitale che lo investe con le sue pulsioni e lacerazioni. Che è un presentimento delle attese del lettore.
Una storia d’amore e di sangue.
“ Se non fosse così vera sarebbe una storia già scritta secoli fa. Nella bella Napoli di oggi due clan di pari potere, ferocemente l’uno all’altro opposti da vecchia ruggine, dove sangue camorrista si è confuso con sangue camorrista, sono in guerra da più di otto anni. Dai potenti genitori, da questi due nemici di ferro, ha preso vita una coppia di innamorati contrastati dal tragico evento che ha contrapposto le due famiglie: la violenta morte di Aldo Musso, zia di Rosa, ad opera di Mariasole (mamma di Antonio ndr) e della sua Federazione”. Questa la storia di “Alcuni avranno il mio perdono” sintetizzata dal narratore stesso. Il titolo e le parole, che introducono le cinque parti in cui è divisa la vicenda, sono tratti dalla tragedia Romeo e Giulietta di William Shakespeare, e quindi anticipano già al lettore la tragica fine della storia d’amore tra i due giovani. E allora, sapendo già come va a finire, cerchiamo altrove motivi di interesse e analisi e soffermiamo la nostra attenzione sullo “specifico” linguaggio del testo letterario, che è quello che lo distingue da una cronaca di camorra nella Napoli di oggi.
L’io narrante
All’inizio c’è una sorta di narratore esterno che racconta in terza persona. Poi l’io narrante si svela come Arturo (un personaggio inventato di nuovo, che non compariva nei due precedenti romanzi della trilogia): il figlio che Giovanni Farnesini, marito di Mariasole, ha avuto da una donna sedotta nel carcere A parte l’indubbia efficacia di un artificio tecnico, che genera nel lettore curiosità e attesa per il “ritardo di informazioni” sull’io che si definisce “fratello” di Antonio, chiediamoci: Perché la voce narrante è affidata ad un personaggio che si può considerare secondario? che più che agire guarda, proprio come l’uomo raffigurato nella copertina? Una scelta che potrebbe intendersi come “metanarrativa”, nel senso che l’autore ha voluto mettersi in una spassionata posizione di distacco rispetto alla materia narrata senza farsi coinvolgere emotivamente da essa. E del resto non c’è da parte del lettore una decisa identificazione nell’io narrante che sembra essere più una lente che si offre per guardare e ascoltare la città: La città dice che… La città dice e lo fa come il coro di una tragedia. Insomma personaggio reale nella fabula ma quasi anonima voce del coro sul piano del racconto.
Il linguaggio
Il linguaggio di “La buona legge di Mariasole”, il secondo romanzo della trilogia di Acqua storta, si muoveva tra dissimulazione e verità, era fatto di tutta la gamma di registri e variazioni linguistiche a secondo dei destinatari e delle situazioni, con le allusioni tipiche del codice camorristico, con espressioni dialettali che rendevano i reali sentimenti dei personaggi nei momenti in cui si toglievano la maschera. Una eccezionale stratificazione linguistica che qui si riscontra solo in parte. Il linguaggio, infatti, appare più omogeneo e l’adozione del discorso diretto libero elimina spesso anche parole e pensieri che dovrebbero essere riportati tra virgolette per non spezzare la fluidità del racconto. Il lessico del dialetto è ridotto al minimo, utilizzato o in espressioni particolarmente pregnanti all’interno del discorso, spesso intraducibili in italiano se non con perifrasi, o per l’asprezza fonica (muore di scuorno, gli schiattano la capa, ragazzo sbalestratiello, le si scarrupa il cuore in petto, non voglio tarantelle, lo hai scommato di sangue, la botta in testa lo ha stopetiato…), a generare rumori e suoni dissonanti che riproducono sulla pagina particolari azioni e sentimenti. Ma permane una lingua che ha modi di dire ( il figlio che ha cresciuto mollica dopo mollica ; Sasà è sceso a lavorare ), la brevità dei periodi, la costruzione sintattica ( ad es. l’anticipazione dell’oggetto rispetto al predicatoe l’utilizzazione del pronome che rompono la regolarità della frase : Qua di rispetto non ne vedo; questo sabato a Rosa la troverà…), la cadenza espressiva, il ritmo propri del dialetto. Come se il raccontare si articolasse secondo una partitura musicale mono-tona, talora quasi come una litania nello sgranocchiare un rosario.
Le madri
E’ forse ancora una volta la madre la protagonista del romanzo? O meglio le madri? Nel romanzo ce ne sono sette: Mariasole, madre di Antonio; la suocera Angela; Aida, che ha costruito una edicola per il figlio morte per overdose; Cosimina, la mamma di Rosa; Filomena la mamma di Gennaro ‘o Ninno, ucciso da Anna killer di Mariasole; Patrizia, madre di Sergio, spacciatore per Antonio; Teresa, la donna delle pulizie da cui è nato Arturo in seguito ad uno stupro subito da Giovanni. Madri per lo più accomunate dallo steso destino: la perdita di un figlio per morte violenta; madri possessive protettive vendicative rassegnate addolorate sfatte devastate. Madri per le quali valgono le parole di Mariasole: essere madre è il più importante dei fatti, il fatto più buono ed è la legge più buona del mondo quella che disciplina la cura di una madre per suo figlio. E se tutte queste madri fossero sfaccettature di una Grande madre, quale in questo caso la città stessa di Napoli? E se tutte le madri dei romanzi di Carrino fossero la proiezione di una madre reale, concreta, carnale?
Amor omnia vincit ?
Alla fine, nella contrapposizione di due logiche che non possono incontrarsi perché mosse da istanze diverse, il potere con la sua forza schiaccia l’amore dei due giovani; ma l’amore a sua volta porta alla rovina i suoi oppressori. La scelta finale di Mariasole sembrerebbe esserne una conferma, ma si tratta di una decisione personale, da cui il mondo violento, con cui taglia i legami per allontanarsene, non è toccato.