È sempre molto difficile parlare di un lavoro fatto da un amico, specialmente un amico che si stima profondamente. Ancor più difficile lo è se con questo lavoro si ha un legame che va oltre quello del semplice lettore, come in questo caso: Alcuni avranno il mio perdono è il terzo, conclusivo capitolo della saga del clan Acqua Storta, iniziata con l’omonimo romanzo d’esordio di Luigi Romolo Carrino del 2008 e proseguito con La buona legge di Mariasole (2015).
Tra il primo e il secondo romanzo c’è stato un periodo in cui Carrino e io abbiamo lavorato all’adattamento cinematografico di Acqua Storta, creando una sceneggiatura che si liberava del punto di vista esclusivo del protagonista principale su cui ruota tutto il primo romanzo per andare a raccontare la stessa storia attraverso i punti di vista dei tre personaggi principali: Giovanni, il sanguinario figlio del capoclan, sua moglie Mariasole e l’amante di lui, Salvatore.
L’intenzione era di proseguire il lavoro iniziato da Carrino con La versione dell’acqua, una sorta di appendice al romanzo, in cui dava voce (e che voce!) al personaggio forse più complesso di tutta la saga, Mariasole, che emerge nell’arco della trilogia come la vera, unica protagonista. Questa versione è stata pubblicata nelle seguenti edizioni di Acqua Storta ed è sfociata in un adattamento radiofonico e un recital teatrale con musiche di Federica Principi per le voci di Alessio Arena e Emanuela Borozan. Molto di quel lavoro, come pure quello sulla sceneggiatura, ha fornito i semi da cui è poi germogliato il secondo capitolo della saga – a tutt’oggi il lavoro di Carrino che faccio più fatica a leggere imparzialmente, per i motivi esposti e soprattutto per l’intimo dolore di un film che ancora non si è fatto.
È tutta un’altra storia invece con questo nuovo libro, che riprende la tragedia di Shakespeare che cita nel titolo, Romeo e Giulietta, aggiornandola all’ambiente della camorra napoletana. Ma la tragedia shakespeariana è solo una traccia, una struttura con cui Carrino si diverte a giocare con le aspettative del lettore, di volta in volta sviandole, tradendole o confermandole proprio quando il lettore vorrebbe essere smentito. In realtà la materia vivente e palpitante di questo romanzo, la parola che si fa carne e sangue, è tutta farina del sacco di Carrino: una cornucopia generosa di sentimenti e di umanità, nonché di sapiente intelligenza narrativa, di cui è difficile sentirsi sazi. Quasi si vorrebbe che non finisse mai e dispiace quell’ineluttabilità del fato che porta all’adempimento della tragedia, perché se ne vorrebbe ancora. Ma è giusto così.
Quello che colpisce principalmente nella scrittura di Carrino, che è una scrittura pensata e ragionata, dove, nella sua mirabile fusione di italiano e dialetto, ogni parola, ogni espressione, ogni punteggiatura hanno un loro peso specifico e una precisa funzione narrativa – Carrino nasce innanzi tutto poeta e questo si sente e si ama in ogni suo romanzo – è la sua capacità davvero impressionante di calarsi dentro la psiche della voce narrante, di raccontarci ogni suo protagonista dal di dentro, con le sue parole, con le sue strutture mentali, con tutte le sue verità e inganni, con le sue facoltà cognitive. La struttura stessa di ogni romanzo finisce per essere informata dal suo protagonista.
In Acqua Storta tutto viene raccontato così come viene vissuto da Giovanni: la narrazione procede veloce come una freccia, seguendo un principio profondamente maschile, raggiungendo stringatamente e ineluttabilmente il compimento della tragedia, seppure in uno snodarsi à rebours, che illustra in modo agghiacciante i meandri di una mente profondamente paranoica e esaltata.
Nel secondo capitolo, in cui è Mariasole a narrare gli eventi che seguono la morte di suo marito e dell’amante di lui a partire dal funerale di Giovanni fino ad arrivare al compimento della terribile vendetta, la narrazione procede con un metodo molto più intuitivo, propriamente femminile, come si confà alla protagonista. La narrazione del capitolo conclusivo di questa saga viene invece affidata a un nuovo personaggio.
Il Carrino narratore cambia nuovamente pelle e psiche, per dare voce e cuore a Arturo, un figlio dimenticato, abbandonato, in realtà mai conosciuto, il figlio della violenza, il figlio di uno stupro avvenuto in quella prigione che già fu teatro dei terribili eventi che in qualche modo danno il via al primo romanzo. Il figlio avuto a sua insaputa da Giovanni prima di dover sposare Mariasole.
Se Acqua Storta è il Libro del Padre e La buona legge di Mariasole è il Libro della Madre, allora Alcuni avranno il mio perdono inevitabilmente è il Libro del Figlio. Ma non il figlio ufficiale, il piccolo Antonio che ai tempi in cui si svolsero i fatti di Acqua Storta aveva sì e no sette anni e che in questo ultimo capitolo ritroviamo novello Romeo diciassettenne.
Anche lui è tra i protagonisti di questo romanzo, la vittima sacrificale della saga, il romantico eroe che non può sfuggire a un destino prestabilito e inevitabile, nonostante gli sforzi della madre. No. Il figlio in questione è l’altro figlio, un novello Mercuzio che sopravvive agli eventi per poterli raccontare. E che magnifica creazione questo personaggio è. Il suo anelito di ragazzo, ormai solo al mondo, a ritrovare il padre, a conoscere il fratello e ad essere riconosciuto almeno da una madre che non può essere sua madre, è profondamente commovente. Il suo avvicinarsi agli eventi dall’esterno, da semplice testimone estraneo ai fatti (ma così semplice e così estraneo non è), da comune e onesto cittadino che si ritrova in prossimità di alcuni eventi tristemente (stra) ordinari in una città come Napoli, non ha solo il compito non facile ma pienamente assolto di permettere anche a un lettore estraneo ai precedenti due capitoli di poter leggere questo libro autonomamente senza perdersi né distrarsi, ma anche di fornire un nuovo punto di vista e, quindi, nuova freschezza, a una storia di cui già molto si conosce.
Sono proprio i momenti in cui Arturo, finalmente smascheratosi per quello che è, esprime questo suo bisogno di figlio di ritrovare una famiglia, un’appartenenza, a fornire i momenti più alti di questo bellissimo romanzo. In queste pagine c’è tutto il Carrino scrittore, non solo quello della trilogia di Acqua Storta, ma pure quello di Pozzoromolo e di Esercizi sulla Madre, le sue massime vette letterarie a tutt’oggi, entrambe nominate al Premio Strega. Ci sono tutte le sue tematiche, c’è tutto sé stesso, ma in modo mai autoreferenziale e sempre funzionale alla storia. E questo non è mai così lampante quanto alla fine del libro, quando Arturo, nuovamente solo ma ora ricongiunto a una “sua” famiglia, riflette su quanto avvenuto e finisce per ripetere, senza averne nessuna idea, le stesse parole che il padre aveva pronunciato prima di morire.
Ecco. Chapeau! Con un paragrafo che da solo è già un capolavoro, Carrino riesce a portare stilisticamente e narrativamente a compimento l’intera trilogia di Acqua storta. È, per parafrasare uno dei personaggi della saga, il cerchio che si fa quadrato – la forma che si fa contenuto. Una scelta d’autore che ci dà l’esatta misura del talento vero, sincero, immenso che è Carrino nel panorama della letteratura italiana di oggi.