Nell’ambito di un incontro avvenuto la settimana scorsa al Salone internazionale del libro di Torino, Sandro Ferri editore, insieme a Sandra Ozzola, di Elena Ferrante, ha accennato, tra l’altro, a qualche dato che riguarda gli esiti editoriali prodotti in Italia dai romanzi di questa autrice: diritti ceduti ad oggi in cinquanta Paesi. Copie vendute da Elena Ferrante nel mondo, scrittrice che ha pubblicato per la prima volta nel 1992: oltre i cinque milioni. Di fronte a queste cifre è probabile che relegare l’importanza del fenomeno Ferrante al suo aspetto puramente commerciale sia un po’ riduttivo. Ma forse lecito se l’ottica da cui si guarda il caso Ferrante ha in sé la parzialità di uno sguardo estraneo ai suoi contenuti.
Qualche tempo fa, a fine aprile 2016, arriva una notizia che ha dell’incredibile anche per noi lettrici di Elena Ferrante: il Time inserisce l’autrice de L’amica geniale tra i 100 personaggi più influenti dell’anno. Le categorie in cui il prestigioso giornale suddivide le personalità più influenti del 2016 sono cinque: titani, pionieri, artisti, leader e icone. Nell'elenco dei cento nomi compaiono Leonardo Di Caprio, Mark Zukerberg, Christine Lagarde, ognuno secondo il Time, particolarmente influente nel proprio settore. La categoria in cui è inserita Elena Ferrante è quella degli artisti.
Dunque Elena Ferrante è riconosciuta a livello internazionale come un’artista capace di un’influenza globale esercitata sui suoi contemporanei, pur senza essersi mai presentata sotto forma corporea ed esprimendo la propria soggettività esclusivamente attraverso la parola scritta.
Nel prezioso saggio di Giorgio Agamben Che cos’è il contemporaneo? quanto mai opportunamente evocato, in merito a Elena Ferrante, da Stefano Jossa su Doppiozero, viene espressa la necessità da parte soprattutto di chi legge o analizza i testi di “riuscire a essere in qualche modo contemporaneo” a questi. Per esprimere ciò Agamben utilizza una poesia di Osip Mandel'štam intitolata Il secolo al fine di individuare il tipo di sguardo che l’autore/poeta di questo testo rivolge alla propria contemporaneità. Spiega Agamben come l’autore osservando, e in parte incarnando, la piena e controversa visione della sua epoca, mantenga entro se stesso un distinguo fondamentale in merito al suo presente: quello tra il tempo della sua vita di singolo e quello del tempo storico collettivo. Grazie a Agamben, e attraverso la poesia di Mandel'štam, comprendiamo come nello specifico la continuità tra la vita del singolo e quella del tempo storico collettivo sia interrotta da una vera e propria frattura: “in questo caso il secolo XX, la cui schiena – apprendiamo nell’ultima strofa della poesia – è spezzata” . Più oltre, nel saggio, Agamben definirà il presente come quella parte di non-vissuto che per troppa vicinanza o per il suo carattere traumatico non siamo riusciti a vivere dichiarando che: “l’attenzione a questo non-vissuto è la vita del contemporaneo” e sottolineando con ciò, ancora meglio il carattere di quella frattura espressa dalla poesia di Mandel'štam. Frattura che in quest’ottica ci appare simile al tema ferrantiano della frantumaglia.
La frantumaglia, vocabolo del lessico familiare di Ferrante e titolo di una di una delle sue opere fondamentali, anche se costituisce un tema ormai variamente interpretato, è in ogni caso un malessere femminile intempestivo e istantaneo, una sorta di caos primigenio che si impone sulle forme note e quotidiane, spezzandole. Sia detto sottraendo ancora una volta l’immagine portante della poesia di Mandel'štam nell’analisi di Agamben: con l’introduzione del concetto di frantumaglia nell’esperienza femminile, Ferrante ha spezzato le vertebre del suo tempo, proponendo il tempo di un soggetto esclusivamente femminile in rotta insieme di collisione e collusione con il tempo storico collettivo. Perché allora non provare ad immaginare di iscrivere questa continua frattura e ricomposizione nell’ordine di ciò che in Ferrante investe il femminile proprio perché inteso separatamente dal resto?
Attraverso una lunga intervista concessa il 20 agosto del 2016 a Klaus Brinkbäumer su Der Spiegel questa frattura costituita dalla sua opera, Ferrante la iscrive anche in un’altra prospettiva. Qui la nostra autrice, infatti, si riferisce a quanto risulti ingannevole quella linea di demarcazione tracciata, proprio dal XX secolo, tra letteratura di qualità, quindi per pochi, e letteratura popolare, ovvero riservata alle masse. I romanzi napoletani infatti se non propriamente fratturano, quanto meno evidenziano dichiaratamente una falla, nell’ambito di una semplificazione troppo radicale, utilizzando linguaggi tipici, tanto di ciò che è riconosciuto in senso letterario come qualitativamente appropriato, quanto di ciò che è consapevolmente votato all’intrattenimento.
Tuttavia il fatto che Ferrante sia anche un caso commerciale non può costituire una scusa per l’ennesima rimozione di alcune questioni che in Italia trovano con fatica una collocazione sufficientemente serena per essere sviluppate in ambito accademico e non.
La lettura più o meno analitica di un’opera intesa come oggetto di largo respiro (per parafrasare la suggestiva visione di Stefano Jossa quando parla degli “oggetti” su cui l’università avrebbe il dovere di lavorare) cioè un tipo di lettura/analisi che serva davvero come strumento di riflessione presente e futura o nel migliore dei casi come alternativa, personalmente l’ho vissuta nel dipanarsi della mia esperienza individuale di lettrice dei libri di Elena Ferrante.
Elena Greco, all’inizio della tetralogia de L’amica geniale è una bambina soprattutto spaventata, figlia di un’Italia del secondo dopoguerra che Grace Russo Bullaro definisce in un accurata analisi dei romanzi napoletani, fisicamente, economicamente e moralmente distrutta dalla sconfitta, frammentata dal regionalismo, dalla divisione di classe oltre che dal plurilinguismo dei dialetti regionali. Riguardo i romanzi di Elena Ferrante, non fanno che proporsi ipotesi molto stimolanti di un lavoro interdisciplinare condivisibile. Come quella legata ai flussi migratori interni all’Italia degli anni Cinquanta che risultano un fenomeno estremamente evocativo rispetto a una delle possibili interpretazioni di quel restare o andarsene vissuto in modo così cocente dalle due protagoniste dei romanzi napoletani. Non servirà certo aggiungere come concorrano a illustrare i contenuti di Elena Ferrante in un’ottica rigorosamente analitica, gli studi italiani relativi al concetto di ambivalenza “del” testo e ambivalenza “nel” testo di Elena Ferrante proposti a cura di Anna Maria Crispino e Marina Vitale . Scanso equivoci, è importante sottolineare inoltre che molti di questi materiali sono di dominio pubblico, per lo più editi. Da lungo tempo oggetto di studio approfondito e in continua evoluzione, da parte di molte figure accademiche, più o meno di spicco, italiane e non, di cui, solo per fare un esempio tra gli altri, il convegno tenuto all’Università di Napoli Federico II è stata un’espressione estremamente significativa.
Tutte le protagoniste di Ferrante fanno riferimento alle molte possibili interpretazioni di un femminile singolarmente vissuto nell’ambito di un tempo storico collettivo. Scrive la stessa Ferrante a questo proposito su Delia e Olga, protagoniste rispettivamente de L’amore molesto (1992) e de I giorni dell’abbandono (2002): “Sono donne che dicono la loro storia dal centro di una vertigine. Quindi non soffrono per il conflitto tra ciò che vorrebbero essere loro e ciò che sono state le loro madri, non sono il punto d’approdo sofferto di una genealogia femminile cronologicamente ordinata che muove dal mondo arcaico, dai grandi miti dell’area mediterranea, per arrivare a loro in quanto picco visibile di progresso. Il dolore deriva invece dal fatto che intorno a loro, simultaneamente, in una sorta di acronia, si affolla il passato delle loro antenate e il futuro di ciò che cercano di essere”.
Quanto a Lenù, una delle due protagoniste dei romanzi napoletani, appare soprattutto essere una contemporanea delle sue lettrici e dei suoi lettori perché anche lei è un’autrice che osserva e personifica, in una commistione decisamente conturbante, il suo tempo e il suo luogo. E ancora di più perché è una donna che inizia con l’essere una figlia disastrata ma che in poco più di una decade assaggerà cosa significa la prosperità e il progresso. Ossia quel boom economico che la vedrà ormai ultra sessantenne, consegnata a una classe sociale superiore rispetto a quella della sua origine. Elena Greco si è impegnata davvero, soprattutto a smettere di essere Lenù. Si è commisurata a tutto ciò che quell’escalation le ha permesso di accogliere. Però alla fine i conti non tornano. Elena Greco si accorge molto prima di altri, per il motivo che è una scrittrice autenticamente contemporanea, che forse la questione linguistica , quella politica e quella esistenziale necessitano di non essere confuse e allo stesso tempo richiedono ancora una volta un’energia di rottura dei gerghi e degli schemi che la sua generazione ha misteriosamente dismesso anzitempo rispetto alle premesse.
Per Agamben contemporaneo è anche “colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e metterlo in relazione con gli altri tempi” . Questo è ciò che in parte e inevitabilmente concorre a dare senso alla storia. Non in contraddizione per Adriana Caravero un’ulteriore senso della storia proviene da quanto in Ferrante coincide con “l’operazione materiale di narrare la storia che viene dall’altra”. In un’intervista di Isabella Pinto a Adriana Caravero realizzata a Verona il 28 settembre 2016, intitolata Filosofia della Narrazione e scrittura del sé: primi appunti sulla scrittura di Elena Ferrante attraverso le significative domande della studiosa intervistatrice, Caravero tocca con semplicità e efficacia alcune questioni fondamentali che riguardano anche l’università: “Ritengo che sia un peccato che nell’università italiana non ci sia un’area disciplinare (in burocratese si dice così!) di Studi Femministi o Studi della Differenza Sessuale e mi sono sempre opposta alle femministe italiane radicali che della loro contrarietà all’istituzionalizzazione accademica di questi studi hanno fatto una bandiera politica e soprattutto ideologica. (…) L’accademia non è un male assoluto, è un’istituzione nella quale ci sono finanziamenti e posti di lavoro per chi si dedica meritevolmente alla ricerca, eventualmente anche per chi fa ricerca sui temi femministi, se gli Studi Femministi fossero inclusi nelle discipline accademiche”.
Sta soprattutto alle energie e alle motivazioni dei singoli individui la capacità di leggere con altri occhi tutte le fratture che contribuiscono a una visione quanto più prossima alla contemporaneità. Questa, a mio avviso, è una delle lezioni fondamentali che ci ha impartito Elena Ferrante negli anni. Tuttavia non è Ferrante ma la stessa contemporaneità che esige che tutte e tutti ne siano all’altezza. “Per questo i contemporanei sono rari. E per questo essere contemporanei è, innanzitutto, una questione di coraggio” scrive appunto Giorgio Agamben.