Il successo internazionale dell'Amica geniale di Elena Ferrante, con quasi sei milioni di copie vendute finora nel mondo, è il successo di una narrazione glocale. È la capacità di raccontare Napoli, proprio nei suoi aspetti più ingombranti e specifici, in chiave globale. Per questa ragione, nei quattro romanzi che compongono L'amica geniale, Napoli è lo scenario di un'alterità spiazzante ma sempre universalizzata, e in grado di includere in sé la storia europea a partire dagli anni Cinquanta del Novecento fino a oggi. Come sottolineava Mariella Muscariello durante il seminario napoletano che abbiamo organizzato su Ferrante (Di Napoli non ci si libera facilmente, 7-4-2017) e a cui ha partecipato anche Ann Goldstein, Napoli è «mondo appreso, mondo percepito, mondo immaginato». È proprio una formula di Ferrante, che vede in questa forza metaforica della città la concentrazione «del meglio e del peggio dell'Italia e del mondo». Napoli è il punto di vista che mette in prospettiva l'intero discorso, che orienta l'intreccio, anche in quelle parti della storia - e sono innumerevoli - che prendono forma in altri spazi, in altre città (Pisa, Firenze, Genova, Milano, Torino, Montpellier...). Il fascino di questa narrazione al tempo stesso radicata e cosmopolita sta in questa continua metamorfosi del tempo, in questa sovrapposizione di arcaico (l'arcaico della Napoli sottoproletaria da cui tutto ha origine: il Rione Luzzatti in cui crescono le due protagoniste, Elena e Lila) e di ipermoderno (proprio nel rione Lila installa negli anni Settanta il primo centro informatico d'Italia, la Basic Sight). E simultaneamente arcaica e moderna è anche l'amicizia tra Elena e Lila, il nucleo centrale dell'intera quadrilogia: è infatti un legame tra due donne sottoproletarie in cerca di emancipazione, in cui si mescolano necessariamente invidia e riconoscimento elettivo. Più in generale, l'amicizia è un legame fondativo per le donne, e tuttavia molto poco rappresentato nell'immaginario universale: ecco un'altra ragione decisiva del successo internazionale di Ferrante. Questa sincronia di arcaico e ipermoderno oggi ci colpisce molto, perché la globalizzazione nella quale viviamo è proprio una compresenza di alterità temporali che noi attraversiamo continuamente, una sincronia lacerante... Io sono napoletana, e quindi a maggior ragione mi incuriosisce molto il modo in cui Ann, la maggiore traduttrice vivente della letteratura italiana contemporanea, una newyorkese, guarda all'Amica geniale.
Come vede, Ann, questa oscillazione tra locale e globale?
«Prima di tutto Ferrante sa raccontare: lei è maestra nel costruire l'intreccio, lei vuole avere lettori. Questo è un punto importante. Il racconto ci immerge nelle vite di Elena e Lila e nelle vite del rione. E tutti noi abbiamo amici e a1niche: abbiamo un rione, anche se non è un rione di povertà. Ma riconosciamo qualcosa di affine nei rapporti con le famiglie, nei rapporti con gli an1ici: ci sono nascite, amori, matrimoni e morti. Tutto ciò che accade nelle vite di Lila e Elena noi lo riconosciamo come nostro. Ferrante ha un modo speciale di parlarci dei rapporti intimi, perché ci fa capire che sono anche rapporti sociali; interroga i rapporti intimi e sociali con una chiarezza, con una intensità anche brutali: ha uno sguardo spietato. E i lettori americani rispondono alla ricerca della verità, la verità dei rapporti, delle emozioni. Ferrante ha detto: "nella finzione è possibile spazzare via tutti i veli, anzi è un dovere". E questa per tutti i lettori è una cosa molto potente. Contano molto anche la sua forte capacità di raccontare le differenze di classe e la possibilità della metamorfosi; per esempio la metamorfosi di Elena vale a dire la sua emigrazione, la sua decisione di lasciare il rione per cercare un'altra strada, un'altra vita».
La metamorfosi si collega poi alla «smarginatura», un altro teina centrale per la quadrilogia. La smarginatura è una esperienza psichica di Lila, è la perdita del confine che definisce le forme, ma è anche una energia dell'intera città: c'è prima di tutto la smarginatura femminile, quella dei corpi e delle identità delle donne, che si deformano a causa della violenza maschile ma poi si riformano, in una sorta di creatività reattiva, difensiva; c'è poi un creparsi dei corpi maschili del rione, da cui erompe la violenza arcaica; abbiamo inoltre una smarginatura queer, perché uno dei personaggi del romanzo viene chiamato da Lila alla sua vocazione omosessuale attraverso una fase femminiella. Quindi questa energia psichica è Napoli: un potere metamorfico ed ermafrodito, che la città ha; fasi traumatiche e liminali che la città vive, attraversa. Però ancora una volta la smarginatura è anche un evento universale, perché racconta una trasformazione fluida, angosciosa, della realtà di oggi. È uno spaesamento, un decentramento fatto di perdite e di acquisizioni, qualcosa che ha molto a che fare con la nostra realtà globalizzata.
«La smarginatura è un termine della legatoria e della tipografia con due significati: "tagliare i margini delle pagine" (in inglese «trim the edges") e "uscire dai margini fissi" ("to spillover the margins"). Avrei voluto trovare una sola parola, un sostantivo equivalente a quello italiano con tutte le sue sfumature, ma non è stato possibile anche perché l'inglese non ha la esse privativa. Pensavo all'idea delle persone che perdono i loro margini, i loro confini. Ho provato con edgeslessness ("senza margini"), ma non mi convinceva; poi ho capito che c'erano due aree semantiche da considerare: "togliere qualcosa" e "i margini che sono tolti". Ho tentato varie soluzioni con i verbi - "losing", "dissolving", "disappearing" - e con i sostantivi, "boundaries", "edges", "borders". Siccome Lila usa il verbo "dissolvere" proprio quando descrive la smarginatura, anche io ho adottato il verbo affine "to dissolve". E quindi sono arrivata a tradurre la smarginatura con "dissolving margins". È stato difficile ... Vedo due vettori della metamorfosi. Il primo è ovviamente Lila. Dobbiamo fare attenzione al fatto che Lila percepisce in senso psichico la smarginatura, mentre gli altri la vivono come esperienza di deformazione dei propri corpi. C'è quindi una dissociazione del fenomeno. Un altro vettore della smarginatura è Elena, che va via dalla sua città, va verso altri luoghi e vive altre metamorfosi e poi ritorna, e questa trasformazione di sé è anche una trasformazione della sua lingua, che cambia continuamente, dal liceo all'università, e poi anche della sua scrittura. Nel quarto volume, Storia della bambina perduta, c'è un brano struggente in cui Elena sottolinea che lei e Lila non possono più dialogare perché lei ha perso il dialetto mentre Lila ha perso l'italiano e quindi in quel momento entrambe parlano una lingua falsa. In questo senso si può di re che la smarginatura è la lingua, ma è anche l'amicizia tra le due amiche, continuamente «formata, sformata, riformata », come dice Ferrante».
Qui ha toccato un altro punto decisivo del nesso tra particolare e universale nel ciclo dell 'Amica geniale, cioè il rapporto tra dialetto e lingua. Il napoletano risuona ovunque ma in realtà è quasi del tutto tradotto, filtrato in italiano. C'è però un ponte tra il parlato del napoletano e la sua trascrittura in italiano. Si percepisce un travaso ma anche una tensione tra i due mondi. È la lingua di una voce narrante, quella di Elena, che era sottoproletaria e poi si è imborghesita, che è madrelingua napoletana e poi si è italianizzata: una voce che si mette al confine tra i due mondi. Si tratta insomma di una napoletanità latente, oppure, da un altro punto di vista, di un'italianità ibrida. Per far capire cosa intendo, vorrei citare uno dei casi in cui compare il napoletano, tratto dal primo volume della quadrilogia. Qui la voce narrante di Elena riferisce il commento di Lila sulle avance che lei stessa ha subito: «andammo via mentre sentivo Lila che diceva indignata a Enzo, in dialetto strettissimo: M'ha toccata, hai visto? A me, chillu strunz. Meno male che non c'era Rino. Se lo fa un'altra volta, è morto». È molto interessante il fatto che il prelievo dal napoletano sia dosato con molta attenzione. Elena segnala che Lila sta parlando «in dialetto strettissimo», ma poi del dialetto nel discorso diretto dell'amica rimane solo «chillu strunz». Quale è stata, Ann, la sua esperienza di traduttrice di questa lingua così particolare?
«Molti lettori anglofoni hanno pensato che Ferrante avesse scritto la quadrilogia in dialetto e che quindi io l'avessi poi tradotto dal napoletano all'inglese, proprio a causa di questa continua segnalazione del ponte verso il napoletano (I-he-she said in dialect/I-he-she said in italian) che c'è nel testo. In questo caso che poni tu, nella mia traduzione "chillu strunz" diventa "that shit" ma ho garantito comunque un contatto con l'oralità. In questo modo la frase è solo un po' più slang ma non molto più slang di altre, proprio per aderire alla lingua ibrida della voce narrante nella quale i prelievi dal napoletano come questo sono, come dicevi tu, sempre molto dosati, misurati. Ecco la traduzione dell'intera frase: "As we left I heard Lila saying indignantly to Enzo, in the thickest dialect, He touched me, did you see: me, that shit. Luckily Rino wasn't there. If he does it again, he's dead". Ma vorrei dire anche qualcosa più in generale sullo stile di Ferrante. Lei usa molte parole, ma non sono mai parole inutili. La frase è costruita come un accumularsi di parole che porta ad una verità: la verità di un evento, la verità di una emozione, di un fatto storico. Ferrante vuole scavare in ogni senso per ravvivare questa verità. Per la traduzione è difficile mantenere questo stile, ma c'è un'intensità di queste frasi, che va preservata in inglese. L'inglese non sopporta tanto questo stile, questo accumularsi di parole, che in italiano invece va bene. Io ho cercato di mantenere questo stile il più possibile e credo che i lettori abbiano accettato questa diversità come parte del racconto, della storia».
Tiziana de Rogatis è professoressa associata di Letterature comparate e di Letteratura italiana contemporanea presso l'Università per Stranieri di Siena. Ha scritto diversi saggi su Elena Ferrante