Metamorfosi di una nazione: Iran
In quel momento l’Iran è democratico, comunista, socialista, totalitario, religioso, laico, fondamentalista e anche filobritannico, filoamericano, filosovietico, innamorato di Hollywood, occidentalizzato e fedele alle proprie tradizioni […] In quel tumulto di ideologie e credenze ognuno cerca di fabbricarsi un abito di circostanza, simbolo di adesione o rifiuto in tutto o in parte di ciò che immancabilmente succede: il cozzo tra gli uni e gli altri.
È attraverso attraverso questa istantanea che Parisa Reza, pubblicata da Edizioni e/o, sintetizza la complessa situazione socio-politica e culturale di un paese, l’Iran, attraversato da durissimi scontri tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta. La seconda guerra mondiale prima e il glaciale conflitto successivo tra USA e URSS, produssero una successione di profondi cambiamenti non sempre accettati di buon grado dalla popolazione iraniana.
Tutto ebbe inizio a Quamsar, piccolo villaggio sito nelle colline iraniane, dove Talla e la sua famiglia si stanno preparando ad affrontare un rigido inverno durante il quale tutti i membri si apprestano a vivere riparati unicamente dal calore del korsi.
Si tratta di un tavolo basso con sopra una immensa coperta sotto la quale viene messo uno scaldino di brace e pietre bollenti.
Talla è all’epoca una giovane fanciulla dedita al lavoro nei campi e alla cura dell’affezionata sorella minore Havva, vittima dell’eccessiva severità del padre che la condannerà a una lunga agonia per poi portarla alla morte. Sconvolta dal vuoto lasciato dalla scomparsa della piccola, Talla decide di dedicare tutta se stessa al lavoro e alla propria crescita dato che molto presto convolerà a nozze con un giovane del villaggio – Sardar – partito anzitempo verso la capitale – Teheran – per costruirsi una piccola fortuna e per preparare la dimora che accoglierà la futura famiglia.
La vita di Talla e Sardar nella capitale sarà segnata da gioie, da paure, da tanta fatica e da una profonda sofferenza come sarà l’insopportabile dolore legato alla perdita di due figli. Tuttavia il rispetto e l’amore reciproco non abbandonerà i protagonisti che saranno invece presto ricompensati della loro fede e dei loro sforzi con l’arrivo di un figlio prodigio che saprà riscattarsi agli occhi della nuova e moderna società iraniana.
Bahram sarà infatti un brillante studente e un appassionato militante tra le fila dei democratici in costante conflitto con coloro che si dichiararono fedeli alla dittatura modernizzatrice dello scià Reza Pahlavi. Egli avrà dunque la possibilità di vivere in un Iran totalmente rivoluzionario rispetto al paese medievale ricordato dai genitori e che il lettore impara a conoscere durante la prima fase di sviluppo del romanzo.
Giardini di consolazione potrebbe essere definito un meticoloso reportage di quello che fu e che poi divenne la cultura iraniana, poiché utilizzando una scrittura rapida e scorrevole – quasi appunto a ricordare un servizio giornalistico – l’autrice permette a noi europei di conoscere una cultura rimasta troppo tempo nell’ombra o giunta sino a noi completamente stravolta.
Come un regista l’autrice inquadra infatti diversi momenti di quotidianità preziosi per imparare a comprendere una cultura così tanto diversa dalla nostra e, per di più in un trentennio segnato da profondi mutamenti.
Dapprima l’autrice tocca le corde più intime del lettore mostrando un lato della comunità, quello maschile, intento a compiere i primi passi verso la dimensione femminile nelle sfere più intime; Bahram avrebbe infatti assaggiato l’amore carnale, e da quella volta ha scoperto una cosa che molti uomini di quelle terre ignorano: il piacere della donna.
Ma il processo di apertura e di commistione culturale dei due sessi non sembra essere unanimemente condiviso sia dagli uomini che dalle donne le quali, libere di abbandonare quel velo simbolo di sottomissione, decidono invece di opporsi alle nuove leggi per continuare ad osservare le proprie regole.
Alcune [donne] restano tappate in casa fino a che gli obblighi della vita le costringono ad affrontare la strada. Altre usciranno solo anni dopo, quando la legge cadrà in disuso. Per quelle donne, così come per i loro uomini, è impossibile mostrarsi ai passanti senza chador. Tra l’andare all’inferno e rimanere in casa, scelgono o sono costrette a rimanere in casa.
Più lineare e a tratti ironica è invece il racconto delle emozioni di coloro che si trovarono a fare i conti con le nuove tecnologie introdotte nel Paese da quegli stranieri venuti forse da un mondo parallelo.
Almeno, così sembra percepire la loro presenza l’analfabeta Sardar, che tuttavia dovrà proprio al forestiero la scoperta di un oggetto che in grado di migliorare notevolmente la propria esistenza: era infatti arrivata a Teheran la radio.
La cosa che preferiva era la musica. Gli entrava dentro e lo rendeva felice. Pensava che il paradiso dovesse essere pieno di quella musica, che Dio era soddisfatto dei suoi sudditi e che erano tempi benedetti, motivo per cui aveva ricompensato gli uomini dando loro la radio, cioè il suono del paradiso sulla terra.
E con essa erano arrivati anche oggetti come gli orologi e quegli strani complessi in cui sequenze di immagini scorrevano veloci su un telo bianco e che venivano chiamati “cinema”.
Parisa riesce dunque a rendere in maniera diretta ed efficace la dura lotta di una nazione costretta allo sviluppo e che vi aderisce con difficoltà in quanto la propria cultura deve rimanere e deve essere conservata intatta così da costituire un porto sicuro – un giardino di consolazione – dove potersi rifugiare per poter trovare la forza di affrontare un domani forse ancora più incerto del presente.