Ricordo perfettamente Černobyl’. Quel disastro ha coinciso con il mio primo servizio televisivo. Era successo da pochi giorni e sono andato in giro a fare interviste. Non si conoscevano ancora i contorni, ma dieci anni prima c’era stato Seveso e la gente aveva familiarizzato con la parola diossina. A Černobyl’ però era un’altra cosa. A Porta Palazzo gli ambulanti erano incazzati perché non potevano vendere le verdure a foglia larga. Le madamin che facevano la spesa erano più scandalizzate che preoccupate. Completai il servizio con immagini prese dai circuiti internazionali. Il 26 aprile 1986 era un sabato, il mio servizio fu trasmesso il mercoledì seguente.
In questi giorni mi sono ritrovato tra le mani Preghiera per Černobyl’ della giornalista e scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievič, premio Nobel per la letteratura nel 2015, di cui avevo già letto Ragazzi di zinco (sui reduci della guerra in Afghanistan). Se quel libro era stato un pugno nello stomaco, questo è ancora più forte. La tecnica è sempre la stessa. Aleksievič raccoglie testimonianze e lascia che siano i protagonisti a parlare. Per tre anni ha viaggiato e intervistato centinaia di persone: atei e credenti, comunisti e non, intellettuali e contadini, donne e uomini, persone che hanno continuato a vivere nella zona proibita. Ognuno ha raccontato la sua storia e quella dei propri cari. Ne è scaturito un romanzo corale, pubblicato nel 1997. Non racconta i fatti, ma l’incidenza della catastrofe sulle persone. Černobyl’ è uno spartiacque, dopo Černobyl’ viviamo in un mondo diverso.
Un soldato: Molti andavano proprio sotto l’unità, accanto al reattore. Per fare delle foto… E darsi un po’ di arie a casa… Provavano paura e al tempo stesso un’attrazione irresistibile: come si spiega?
Erano tempi in cui c’erano ancora cartelli nelle strade e negli uffici, tipo: “Il nostro fine è la felicità dell’intero genere umano”, “Il proletariato mondiale vincerà”, “Le idee di Lenin vivranno in eterno”… Naturalmente il partito comandava e bisognava obbedire, andare nella zona rossa senza protezioni. I contadini dovevano abbandonare le loro terre, i raccolti distrutti, le mucche munte ma il latte versato. Qualche anziano si aggrappava all’uscio di casa e si rifiutava di andarsene. I contadini non capivano perché, ad esempio non permettessimo loro di prendere un secchio, una brocca, una sega o una scure dal loro cortile. O di mietere il raccolto. Come lo spiegavamo ai contadini? Le patate… I contadini hanno fatto crescere gli amati tuberi, li hanno raccolti di nascosto, ma adesso li devono sotterrare.
I primi a morire sono i pompieri intervenuti sul reattore. Tutti nel giro di una settimana tra sofferenze atroci. Male equipaggiati e forniti di dosimetri inadeguti perché l’indicatore andava subito a fondo scala mentre le radiazioni erano centinaia di volte maggiori. Poi a farne le spese sono i familiari, anche a distanza di anni. Come questo agghiacciante racconto di un liquidatore: Mi sono tolto gli indumenti che indossavo laggiù, e ho buttato tutto quanto nella canna dell’immondizia. Però la bustina militare l’ho regalata a mio figlio piccolo. Aveva tanto insistito. Se la teneva sempre in testa. Di lì a due anni gli hanno disgnosticato un tumore al cervello.
I liquidatori negli anni fino al 1990 avevano il compito di decontaminare l’edificio e il sito del reattore, le strade, i terreni, le foreste. Il terreno contaminato veniva raschiato e poi sepolto in buchi enormi, così pure gli alberi, tagliati e interrati. Poi venivano premiati con diplomi. Tutti morti anche loro. Si parla di 200mila soldati. Ma sulle cifre, da quelle parti, non ci sono mai certezze
Mi vengono in mente i bambini di Černobyl’. Da trent’anni per certi periodi vengono ospitati anche in Italia per sottrarli alle radiazioni. Perché la catastrofe di Černobyl’ è infinita e le radiazioni non hanno scadenza. Mi ha colpito la storia di una giovane donna, incinta, che andava a trovare di nascosto il marito ormai terminale mentre era ricoverato in isolamento. Con la complicità di un’infermiera riusciva a entrare nella tenda. Le radiazioni che ha ricevuto si sono concentrate sul feto e lei si è salvata. Impressionante. Tante storie così racconta Svetlana Aleksievič. Ma ciò che emerge da questa vicenda, e che la scrittrice mette in evidenza molto bene, è la grande ignoranza collettiva che c’era sul nucleare, l’obbedienza cieca dovuta al partito (il disastro di Černobyl’ è stato anticipatore del disfacimento del blocco sovietico e forse anche una concausa) e la menzogna…
Nella nostra coscienza Černobyl’ è legato a una quantità di menzogne tanto massiccia da risultare incredibile, e che non ha eguali salvo forse durante il periodo bellico.
Ad esempio che più vodka si beveva e più si era protetti dalle radiazioni. E così i soldati facevano incetta di vodka ma poi finivano con il bere anticongelanti e detergenti d’automobile. Nessuno si lamentava: la patria chiamava, la patria ordinava. Il popolo russo (bielorusso) è fatto così.
Una volta alla settimana, di fronte alle truppe schierate, veniva consegnato a coloro che si erano distinti nel lavoro di scavatore un diploma d’onore. Di migliore seppellitore dell’Unione Sovietica.