''Ho fatto i conti con la morte e
questo ti cambia dentro. Ero convintissimo che mi avrebbero ammazzato,
eravamo solo merce di scambio''. Cosi' Daniele Mastrogiacomo parla
all'ADNKRONOS del suo libro 'I giorni della paura' (edizioni e/o, pp.
190, euro 16,00). Un libro che si legge d'un fiato e racconta una
vicenda dannatamente reale: il rapimento del giornalista inviato di
'la Repubblica' in Afghanistan, il 5 marzo 2007. Un diario forte, che
racconta in un linguaggio senza sconti quei terribili 14 giorni di
prigionia, di minacce di morte e di sangue. Il suo autista e poi il
suo interprete cadranno sotto il coltello dei talebani. Lui si
salvera' grazie all'intervento di Palazzo Chigi, alla mediazione di
Emergency e di Gino Strada, all'impegno de 'la Repubblica' e dei suoi
familiari, soprattutto la moglie Luisella, che nel momento cruciale
per imboccare la via di casa, gli da' il consiglio giusto.
''Per me questo libro -spiega Mastrogiacomo- e' la chiusura di
un cerchio, di una storia che restava aperta. La cosa che mi ha spinto
a lavorarci per due anni era il bisogno di andare oltre l'emotivita',
poi il rispetto per chi ha sofferto questa vicenda dall'Italia e
soprattutto un modo per continuare a parlare con due persone che erano
con me e sono morte in quella sabbia. Molti considerano questa vicenda
semplicemente una brutta storia piena di sangue. Io voglio ricordarla
come un'esperienza che mi ha catapultato nel profondo del mio animo.
Che mi ha rafforzato. Nei legami affettivi, nelle piccole cose
quotidiane, nei valori umani. Nella mia professione. Lasciarla preda
dei ricordi e dei fantasmi che mi hanno inseguito per tanto tempo
sarebbe stato egoista. Soprattutto nei confronti dei due miei
collaboratori morti. Loro avrebbero voluto che raccontassi al mondo
questa nostra incredibile storia. Glielo dovevo. Dopo due anni ho
mantenuto la promessa''.
''E poi -aggiunge Mastrogiacomo- puo' essere un contributo per
far capire chi sono davvero i talebani. Infine, ma non da ultimo, e'
un modo per dire grazie a Emergency e a Gino Strada. Un giorno, pero',
prima di morire, in Afghanistan ci torno''.
Il libro esce proprio nei giorni in cui in
Afghanistan hanno perso la vita in un attentato sei para' della
Folgore. Sei ragazzi con il basco amaranto che sono anche nel pensiero
di Daniele Mastrogiacomo: ''Ci ho pensato -spiega il giornalista di
'la Repubblica- e ho deciso di presentare lo stesso il libro domani,
alle Galleria Sordi, a Roma, alle 18. Sara' l'occasione per
commemorare questi nostri ragazzi e dargli onore. Chiedero' un minuto
di silenzio, ma poi rifletteremo insieme di Afghanistan, informazione
e altri temi. In un giorno di lutto nazionale -rimarca- sara' un
momento in cui si potra' dibattere in modo pacato di una realta' che
sta davanti ai nostri occhi. Ne discuteremo con Bruno Tucci,
presidente dell'Ordine dei giornalisti del Lazio, con il collega
Pietro Veronese e con tutti quelli che vorranno pensare con noi una
realta' che non possiamo far finta di non vedere''. Perche' questo
libro non e' una fiction. Come scrive nella prefazione Bernardo Valli,
''quando Daniele descrive le scudisciate inflittegli dai talebani ci
fa sentire i colpi sulla sua pelle''. Carne che si lacera, carne
reale, come il sangue che sgorga dal corpo decapitato di Sayed, poi
spinto nel fiume. E' reale come la fine, anch'essa tragica del giovane
tagiko Ajmal, l'interprete e amico che Daniele credeva in salvo e che
invece, dopo una finta liberazione, viene assassinato.
Lui, il narratore, lo chiamano affettuosamente ''il recidivo'' e
in queste pagine sa riportarci con mestiere ma anche con grande cuore
tra le sabbie dell'Afghanistan, rivelandoci i retroscena del suo
rapimento. Trascinato non in una prigione isolata ma per montagne,
villaggi, campi di oppio, in un confronto-scontro continuo e tesissimo
tra mentalita' e stili di vita e concezioni del mondo lontani anni
luce dall'Occidente. E' l'esperienza del cuore di tenebra delle
civilta' diverse, del mondo oscuro e violento che vediamo come nostro
nemico, dell'attrazione che comunque esercita su di noi e del
desiderio di capire. Ma il reportage nel Paese dei mujaheddin si
trasforma in un'odissea, l'intervista al mullah Dadullah e' una
trappola, l'inviato e' merce di scambio gettata sulla bilancia di un
gioco mortale, fra i talebani e il governo filo-occidentale di Karzai.
Nel giorni della paura, e' la storia di un giornalista ''nel formicaio
impazzito che mi circonda''.
Cosi', scrive Mastrogiacomo, giornalista di 'la Repubblica' dal
1980, in un passaggio del libro, ''cerco di distrarmi, devo
interrompere questo film dell'orrore che continua a scorrere nella mia
mente. Rivedo l'autista, i carcerieri che lo soffocano, il coltello
che incide la carotide, il taglio del collo, la testa che si stacca
dal tronco. I suoi assassini sono ancora qui, davanti a me. Rispettano
questo silenzio che ci opprime''. E altrove: ''Sono rimasto parte del
pomeriggio accovacciato in un angolo del cortile, come un fagotto di
stracci. Una mano mi scuote, apro gli occhi, vedo il talebano con cui
spesso faccio ginnastica. Non mi ha mai detto il suo nome. Adesso lo
riconosco bene: scopro, con orrore, che e' il boia di Sayed. Lo odio
con tutte le mie forze''.
C'e' aria di morte, di sangue, di dolore, in
Afghanistan. La cella di Sayed e' rimasta aperta, il portoncino di
legno scheggiato e' consunto spalancato: ''Guardo quel buco nero e le
lacrime mi scendono sul viso pieno di polvere, sporcano di sabbia la
barba bianca. Le labbra, screpolate e secche, mi sanguinano''. Sono
situazioni in cui non puoi fidarti di nessuno. ''Non mi hanno bendato
e questo mi fa illudere che ci sia ancora un barlume di speranza. Devo
tentare l'ultima carta: mi rivolgo al governo Prodi e a tutto il
parlamento, opposizione compresa. Chiedo aiuto al mio amico Silvio
Sircana, portavoce di palazzo Chigi''. Per il momento Daniele e' vivo.
L'esecuzione e' rimandata, ma ''Sayed e' gia' stato ucciso, adesso
tocchera' a noi'', pensa. ''Mi aggrappo con poca convinzione all'idea
che Ajmal e io restiamo ancora degli ostaggi preziosi. Che i talebani
abbiano bisogno di mantenerci in vita, che le trattative siano a buon
punto, che la nostra morte vanificherebbe ogni possibile scambio''. Il
mullah sorride, loro no. La scadenza dell'ultimatum si avvicina. ''Non
so nulla di quanto accade all'esterno, restiamo avvolti in una bolla
di cristallo, percepiamo solo alcuni vaghi segnali che ci guidano in
questo immenso buio. Nessuno ci informa, nessuno ci spiega: siamo di
nuovo soli, con il coltello ormai puntato alla gola''.
Il Maulvi gli allunga il satellitare: molto del loro destino e'
affidato a quella telefonata che va oltre la sabbia, oltre i topi che
camminano sulla carne sentendo il sangue della sua ferita. Il regista
del loro rapimento e' il mullah Dadullah. L'uomo ''che dovevamo
intervistare e che ha giocato con le nostre vite per regolare a
proprio favore i rapporti di forza all'interno della Suprema Shura, la
cupola che guida il Movimento degli studenti coranici''. E' una storia
nella storia, la sua. ''Come era apparso, il mullah Dadullah sparisce
nel dedalo di viottoli che circonda la vasta zona coltivata a papaveri
da oppio. Inghiottito dal buio della sera. Ma prima di lasciarci,
rivolto a me, aggiunge con un ringhio: 'Devi la tua vita al nostro
supremo comandante. E' stato il mullah Mohammed Omar in persona a
ordinare di sospendere la sentenza di morte. Lui ha deciso di non
farti tagliare la testa''.
Un altro personaggio, anch'esso reale, e' il mediatore,
Rahmatullah Hanefi, il responsabile dell'ospedale di Emergency a
Lashkargah. ''Mi scuote: 'Andiamo, presto, e' meglio che monti subito
in macchina. Non volevo venire' dice, 'sto rischiando la mia vita e
quella della mia famiglia. L'ho fatto perche' me lo ha chiesto Gino
Strada. Ti sta aspettando''. Gino con le sue sigarette infinite, con
la sua voglia di capire, con l'abbraccio sanguigno e fraterno che
pianta al collo di Daniele quando lo vede, confessandogli che e' stato
duro riportarlo al sole. L'inferno e' alle spalle. ''Ma quello vero
deve ancora arrivare. Mi travolgera' a ondate, ora dopo ora, scandito
da sorprese, shock, arresti, polemiche feroci, minacce. E al termine
la botta finale, il colpo di grazia che mi tramortisce: la morte
dell'interprete afghano. Prigioniero per altri quindici giorni, poi
sgozzato, decapitato, forse con lo stesso rituale dedicato al nostro
autista. Tradito dai talebani, da se' stesso, da qualcuno che ha
giocato con le nostre vite in una partita piu' grande di noi''. Ha
pero' ragione Daniele: storie cosi' vanno raccontate.