«Tutti i disastri e le tragedie che stiamo vivendo hanno un’unica fonte: la paura. Quella gente semplice, sul ponte, è morta per paura di morire. Moriamo tutti i giorni proprio per timore della morte. Le zone che hanno ospitato al-Qaeda, fornendole il loro appoggio, lo hanno fatto per paura della controparte, e a sua volta questa controparte si è militarizzata, ha costruito milizie armate per difendersi da al-Qaeda. Ha creato uno strumento di morte opposto, per paura dell’altro. Il governo e le forze della Coalizione devono annientare la paura. Devono fermarla se vogliono mettere fine a questa telenovela di morte.»
Ahmed Saadawi di mestiere fa il documentarista, ma è anche pittore, poeta e scrittore di riconosciuto talento. È nato e vive a Baghdad, quell’«inferno in terra» che è il vero protagonista di questo romanzo, grazie al quale ha vinto l’Arabic Booker Prize nel 2014.
La città del titolo è anche l’attore principale in un dramma nel quale strepitano come marionette una galleria di burattini manovrati dalla capacità piovresca di Baghdad. C’è Hadi il rigattiere, un bugiardo impenitente che passa le sue giornate al caffè e che si ritrova a essere un epigono quasi involontario di Victor Frankenstein. Elishua, la vecchina che con la sua sola presenza benedice il quartiere e lo salvaguarda dagli attacchi delle varie fazioni. Mahmud il giornalista zelante innamorato della compagna del suo ammanicatissimo capo. Faraj il sensale, un palazzinaro spregiudicato e arraffone inviso a tutti e pieno di sgherri. Abu Anmar, che cerca di barcamenarsi con il suo alberghetto allo sfascio. Il generale Surur circondato di negromanti e tizi dei servizi segreti in camiciola rosa e pantaloni neri tutti affaccendati in un improbo tentativo di predire da dove e quando arriverà il prossimo attacco. E poi, appunto, c’è Baghdad e il suo giustiziere, un omaccione composto dai rimasugli delle vittime degli innumerevoli attentati dinamitardi impegnato a vendicare i morti che compongono il suo macabro corpo.
Baghdad è una città che consuma anche le migliori energie e quei pochi sprazzi di positività di chi, giovane e ambizioso come Mahmud, cerca di recitare un ruolo di cambiamento e attivismo, per quanto maldestro e confuso, quando non pilotato dall’alto. Una città dilaniata dalla violenza settaria e religiosa, dalle lotte intestine e più pragmaticamente dalle bombe che minano la vita quotidiana e fanno saltare per aria mercati e persone. Una città di macerie da cui chi può fugge: le sue prostitute la abbandonano e vanno a cercare clienti in Siria, dove – allora perlomeno – la situazione è più rosea. Gli americani sono una presenza impalpabile: li si vede scorrazzare con gli humvee o impalati nell’afa bardati nel loro armamentario, ma è come se non ci fossero.
Frankenstein o il «Comesichiama» si aggira nei vicoli bui di una città fantasma esercitando una giustizia brutale e sommaria, travisata del suo significato originario. Conscio della sua missione ancestrale «essendo formato da brandelli umani appartenenti alle più disparate razze, tribù, categorie ed estrazioni sociali, rappresento quel melting pot impossibile che non si è mai realizzato in precedenza. Io sono il cittadino iracheno, primigenio, così sostiene».
Il male è una cosa a cui prendiamo parte tutti, per quanto si sia convinti di combatterlo: è annidato nelle nostre viscere – anzi a voler trasformare la metafora di Saadawi è la nostra epidermide –, e la verità è «che tutti noi siamo criminali, chi più chi meno, e il buio interiore è quello più oscuro. E tutti quanti insieme formiamo l’essere malvagio che adesso sta rovinando le nostre vite».
Frankenstein a Baghdad è anche la storia di un’attesa e di una speranza; quella di Elishua, una vecchia che non si rassegna alla scomparsa del figlio, che resusciterà e tornerà a bussare alla porta dell’anziana madre, unica a non darlo per morto a distanza di trent’anni dalla guerra tra Iran e Iraq, non una ma ben due volte. In definitiva, ci sono diversi modi di fare un reboot di un libro ottocentesco: alcuni meravigliosi, penso a I segreti erotici dei grandi chef di Irvine Welsh che ricalca Il ritratto di Dorian Gray e fornisce un affresco delle due anime – assolutamente schizofreniche e complementari – della Scozia moderna, altri decisamente più scadenti, come Orgoglio e pregiudizio e zombie di Seth Grahame-Smith. Al netto delle molte prolissità e di alcuni passaggi un filo troppo oscuri, Saadawi maciulla il romanzo gotico di Shelley, ne rende una versione tutto sommato realista – orrendamente realista verrebbe da dire –, seppure imbevuta di elementi magici, ambientandola in una città smembrata dalla guerra e in cui però è ancora possibile ingollare litrate di bicchierini di tè al riparo di un caffè accogliente, con la consapevolezza latente che tutto può finire malissimo e in pochi istanti.
Per capirci, Frankenstein a Baghdad si sarebbe potuto benissimo intitolare «Frankenstein è Baghdad».