Nel bene e nel male, “L’Italiano” (e/o, traduzione di Barbara Teresi, pp. 365, € 18,50) dello scrittore tunisino Shukri al-Mabkhout (1962) sembra un romanzo d’altri tempi. Non solo perché racconta una storia ambientata negli anni Ottanta del secolo scorso, ma soprattutto per il modo in cui l’autore sceglie di raccontarla, ricorrendo a un realismo fiducioso e privo di ironia, che però possiede il pregio di farci seguire la storia con partecipazione, e disegnando la figura del protagonista come l’eroe di un romanzo ottocentesco, che tuttavia finisce col sedurre il lettore.
Siamo a Tunisi, in quel passaggio storico che segna il tramonto del regime trentennale di Habib Bourghiba e l’andata al potere (per altri ventitré anni) di Zine El-Abidine Ben Ali. L’Italiano del titolo è un ragazzo di buona famiglia che, con un’infanzia difficile alle spalle (far parte della borghesia non lo mette al riparo da un abuso in tenera età), crede nell’impegno politico e in una via laica e socialista di progresso per il proprio Paese. Bello, elegante, adorato dai suoi compagni e dalle donne, Abdel Nasser si innamora in maniera inevitabile di una coetanea altrettanto incantevole e intelligente, che viene da una famiglia miserrima da cui vuole riscattarsi a ogni costo. I due si sposano, ma Zina, pur amando il bell’eroe, è accecata dall’ambizione e sacrificherà i sentimenti sull’altare del successo negli studi.
La vicenda viene classicamente raccontata da un amico della coppia, un coetaneo di cui sappiamo poco e niente ma che in compenso sa tutto dei due protagonisti che egli ama senza mai giudicarli negativamente, e anzi con un’ammirazione che talvolta sconfina nella piaggeria. Malgrado questo, il libro sa trasportarci dentro a una società e una cultura di cui conosciamo pochissimo, a parte i soliti luoghi comuni, e di cui riusciamo a intravvedere i meccanismi sociali profondi: la corruzione diffusa, il machismo imperante, la stampa prona al potere, il ruolo insieme salvifico e torbido della religione. Forse come romanzo “L’Italiano” non ci dice granché, ma come testimonianza sulle illusioni perdute di una generazione che ha creduto nel confronto con l’Occidente e nel ruolo positivo della politica, in Tunisia e in generale nel Maghreb arabo, è una lettura necessaria.