Non è mistero che io abbia una passione per la scrittura di Luigi Romolo Carrino, né che aspettassi con trepidazione il suo nuovo romanzo. Ed ecco, la scia di Mariasole (sulle intense copertine realizzate da Luca Laurenti e Emanuele Ragnisco) arriva ora al figlio Antonio, legame e lascito di una storia di molto amore e dolore e odio infiniti.
Solo poche domande, mi sono trattenuta, e non ci sono spoiler di sorta.
Luigi, come sappiamo, il titolo del romanzo è tratto dal quinto atto di “Romeo e Giulietta” di Shakespeare: come nasce, con quali pensieri, quali tentennamenti?
“Alcuni avranno il mio perdono” nasce dalle suggestioni di storie d’amore simili, amori impossibili tra rampolli di clan camorristici rivali. È il sequel de “La buona legge di Mariasole” e rispetto al precedente faccio un salto temporale in avanti di nove anni. Antonio, il figlio di Mariasole tanto protetto, è diventato quasi un uomo, o quantomeno ha l’età giusta per esigere il comando e anche per amare. Amare Rosa, la figlia del nemico più grande dell’intera famiglia. Perciò, mi è venuto naturale pensare a una sorta di “Romeo e Giulietta” in salsa partenopea. Va da sé che non ho certamente messo le mani su uno dei capolavori di tutti i tempi: sono pazzo, ma non fino a questo punto. Dico solo che l’eco di questa tragedia, insita nella storia, mi ha poi spinto a fare qualche citazione (forse più di una…); come – ad esempio – riscrivere la celeberrima scena del balcone che ho ambientato, però, sotto la finestra di una scuola.
È una legge naturale, la legge più buona del mondo, quella che disciplina la cura di una madre per suo figlio. da “La buona legge di Mariasole”. E da pagina 15 di “Alcuni avranno il mio perdono”: Puoi far ammazzare dieci killer, puoi ucciderne tu stessa cento, puoi condannare mille maschi, puoi comandare diecimila uomini e puoi terrorizzarne altri centomila, ma una madre avrà sempre tutti i timori e i dubbi che solo una madre sa di avere. Al di là dell’ambientazione e dei protagonisti, i romanzi su Mariasole sono ancora “Esercizi sulla madre” (Perdisa ed., 2012, ndr)?
Non ti sfugge niente, eh? A parte gli scherzi: sì. Il rapporto madre-figlio è certamente uno degli elementi fondamentali che non deve mai mancare nelle mie storie. Nel testo ho dedicato addirittura una sezione all’argomento chiamata proprio Le Madri, dove è possibile assistere ai diversi atteggiamenti, comportamenti, reazioni, di questo archetipo di tutte le letterature. In realtà, è tutto il romanzo a essere permeato dalle interazioni con la figura materna. La Madre affiora quasi a ogni pagina, e non è soltanto Mariasole. Esistono almeno altre sei figure materne differenti, ognuna con una sua maternità peculiare.
Accostare Shakespeare e la nobiltà veronese alla criminalità napoletana, facendo risaltare i sentimenti che muovono i personaggi, mi fa pensare -correggimi ovviamente- che ci sia l’intento di rivendicare la qualità dei sentimenti stessi. Che sia materno, tra due ragazzi, tra persone dello stesso sesso o di sesso diverso, l’amore nei tuoi romanzi è purezza, non conosce e non accetta codificazioni sociali. E, soprattutto, non è sentimento riservato a pochi eletti.
Stai parlando del motore che – quando è sano – migliora questo mondo, migliora ogni singolo individuo. E questo ‘miglioramento’ può arrivare da ogni classe sociale, da ogni geografia. Lo trovi ovunque, anche se a volte si nasconde. Anche i serial killer amano. Anche i camorristi. Persino i politici, pensa! Altra cosa, invece, è manifestarlo questo bene: dipende dal contesto e dalla situazione, dai vincoli, dall’ambiente. Delle volte è complicato, altre volte è troppo esibito. In certi casi non sembra permesso, alcune volte viene vissuto come una bestemmia sull’altare di santa Chiara. Soldi, sesso e potere muovono il mondo, certo. Ma l’amore lo rende migliore.
La tua Napoli è una madre (ancora una madre!) dalle braccia spropositate che protegge e divora i suoi stessi figli: quanta difficoltà e quali timori hai nel descriverla?
Qualche anno fa scrissi una sorta di guida della città, un reportage romanzato che parlava, quartiere per quartiere, di cantanti neomelodici (“A Neopoli nisciuno è neo“, ed. Laterza) stigmatizzati dagli italiani, ma anche da una parte della città stessa. Lì mi sono abbandonato alla bellezza di Napoli, mi sono divertito, ho parlato di musica, di una certa anima partenopea, del modo di intendere le varie toponomastiche cittadine, perché Secondigliano non è come il Vomero. Eppure, paradossalmente tutta questa differenza, a mio avviso, non c’è. C’è solo chi ha un lavoro e soldi e chi invece se l’è dovuta inventare una vita, a volta anche per generazioni.
No, difficoltà non ne ho a descriverla, nemmeno la periferia. Timore sì, ma è un fatto reverenziale, paura di insistere sempre su temi neri, mentre invece andrebbero anche raccontate, di più almeno, tutte le altre Napoli, un po’ come ha fatto Maurizio de Giovanni con “I Bastardi di Pizzofalcone” (i romanzi, ma anche la recente fiction su RAI 1).
Alcuni avranno il mio perdono, altri la loro giusta punizione, citando la frase per intero. Ma la punizione, quando arriva, costringe ad ammettere non un errore, bensì LA sconfitta. Può mai esserci il perdono per chi non può perdonare se stesso?
Già. In alcuni casi, è più facile perdonare gli altri che ‘perdonarsi’, ma questa è un’altra storia…