A due anni esatti dall’uscita de La buona legge di Mariasole, Luigi Romolo Carrino ce ne propone il seguito con Alcuni avranno il mio perdono (edizioni e/o, pagine 222, euro 15). Rapidissima ricapitolazione a uso di chi non abbia piena contezza di quello che, a questo punto, si può considerare un ampio ciclo narrativo (non già una serie nell’accezione che oggi si dà a questo termine). Il ciclo si riallaccia al romanzo d’esordio di Carrino, Acqua Storta (2008), dove il giovane boss Giovanni Farnesini, figlio di don Antonio ed erede dell’impero criminale degli Acqua Storta, veniva ucciso per esser venuto meno alle regole della camorra innamorandosi di un uomo. Quel primo, piccolo libro – qualcosa che anche per via delle dimensioni si poteva considerare un po’ «il Brokeback Mountain della camorra» – conteneva potenzialità che sul momento Carrino aveva forse sottovalutato. Fatto sta che s’era dedicato ad altri progetti, e soltanto a distanza di anni decise di tornare sull’argomento. Con La buona legge di Mariasole, dunque, ha ripreso i suoi personaggi e ne sta uscendo una vera e propria saga, originata, all’indomani dell’assassinio di Giovanni, dallo sconvolgimento degli equilibri criminali a Napoli. Mariasole Simonetti è la vedova di Farnesini, e madre del suo figlioletto Antonio: bella e decisa, diventa il capo assoluto del cartello criminale. Intorno a lei Carrino costruisce un complesso tessuto di relazioni parentali e rapporti criminali.
Tutto ritorna adesso nel nuovo romanzo, quando Antonio, il figlio di Mariasole, sta per compiere 17 anni e, immaturo e imprudente com’è, s’innamora, ricambiato, della figlia di un rivale giurato della madre. È una situazione che Carrino decide di trattare riferendosi a quello che, in questo caso, appare un modello ineludibile: la tragedia shakespeariana di Romeo e Giulietta. Questa scelta genera un romanzo che, a mio modo di vedere, sa cogliere un esemplare (e paradossale) risultato: intendo dire che, quanto più letterariamente «alto» è il trattamento e qui è proprio così alto, con una messa in scena che ha spesso della liturgia teatrale tanto più adatta ed efficace risulta la stilizzazione «bassa», tipica da romanzo di genere. Interagiscono insomma due tecniche che solitamente potrebbero apparire incompatibili. Inoltre, attraverso l’apparizione di Arturo, un nuovo personaggio che (lo posso dire sperando di non rovinare troppo la lettura) si scoprirà essere fratello di Antonio, e che diventa la voce narrante, è come se lo sguardo dell’autore gli si sovrapponesse, allegando al racconto, in modo fluido e non peregrino e soprattutto senza spezzarne il ritmo, una sorta di contrappunto metanarrativo, utile per illustrare certe dinamiche del crimine organizzato (come il modo in cui le agenzie di scommesse possono servire per il riciclaggio), e soprattutto per far sì che la narrazione sia più «larga» della sua trama, che sia cioè un racconto su Napoli, su come si vive e come si ragiona nella Napoli delle paranze dei bambini. Bravo Carrino.