Daniele Mastrogiacomo racconta i giorni del suo sequestro
la vita con i talebani, il panico, la fede cieca dei carcerieri
E il drammatico destino dei suoi collaboratori afghani
Salvato da una figlia mai
nata. La trattativa per liberare
Daniele Mastrogiacomo
iniziò nel nome di Antaya,
la bambina che linviato
di Repubblica e la moglie avevano
un tempo desiderato di mettere
al mondo. Per avere la certezza di
non finire preda degli sciacalli, le
persone che cercavano di liberarlo
dai talebani, chiesero ai rapitori un
segnale di esistenza in vita: farsi dire
dallostaggio quella parola così intima
e segreta che solo lui e nessun
altro poteva conoscere in tutto lAfghanistan.
Delle 190 pagine dei «Giorni della
paura», racconto autobiografico
del sequestro subito dal giornalista
vicino Kandahar nel 2007, quella dedicata
ad Antaya ha la leggerezza di
un sospiro di sollievo. Riconcilia con
la vita sapere che quel suono dolce,
evocativo di una creatura vissuta solo
nelle fantasie damore dei suoi ipotetici
genitori, una notte sovrastò
lodio ed il dolore, la violenza e langoscia,
il cinismo e lo sconforto. Dalle
colline di sabbia, dagli anfratti scavati
nel terreno, dai fuochi del bivacco,
«esplode un boato che rimbomba
tra le pareti del nostro rifugio allaria
aperta. Antaya! Antaya!», ricorda
Mastrogiacomo. Gridano
quel nome i carcerieri, «felici, quasi
fosse un compleanno». Lui piange,
commosso. Per qualche istante la determinata
ferocia degli aguzzini e la
disperazione delle vittime si sciolgono
nella dolce ipotesi di unumanità
diversa.
Diversa da quella che sventuratamenteconobbero
il giornalista italiano,
sopravvissuto, e i due collaboratori
afghani, trucidati dai sequestratori.
Recatisi sul luogo di quello che
si illudevano fosse lappuntamento
conuno scoop clamoroso, i tre trovaronoad
attenderlinon il presunto capo
talebano disposto a farsi intervistare,
mauna banda di giovani armati
e minacciosamente ostili. Una settimana più tardi, nel pieno della disavventura,
Mastrogiacomo si ritrovava
a pensare allassurdità della situazione
in cui era piombato: «Faccio
esattamente quello che avrei voluto
fare. Sono finalmente in mezzo
a un gruppo di mujaheddin talebani.
Vivo, parlo, mangio, dormo con
loro. Sto andando ben oltre una semplice
intervista. Ma lo faccio ad un
prezzo altissimo: sono un ostaggio
che ancora non sa se ne uscirà vivo».
Ondatedi panico Scorrono attraverso
la narrazione quelle stesse «ondate
di panico» da cui il protagonista
veniva investito più volte nellarco
della stessa giornata, alternate a
subitanei accessi di euforica speranza.
Il lettore, che non ha condiviso
quei momenti, e non è arrivato come
lautore sin sulla soglia di un assassinio
che ormai credeva imminente,
sente volare su di sé una sorta di
panico freddo, razionale, quando si
vede sfilare davanti agli occhi le figure
umane descritte nel libro: uomini
e ragazzi mossi da una fede cieca nella
bontà della propria causa, sino al
punto di giustificare con le vittime e
con se stessi le ragioni delle violenze
che stanno infliggendo, il cinismo
degli inganni, la spietata tecnica delle
minacce e del terrore.
Dallesperienzaumanadi Mastrogiacomo
emanano raggi di luce che
aiutano a comprendere alcuni aspetti
della rivolta degli integralisti afghani.
Che due anni e mezzo dopo
la conclusione, in parte felice in parte
tragica, di quella vicenda, prosegue
ed ha per protagonisti giovani e
meno giovani combattenti assai simili
a quelli descritti nei «Giorni della
paura».