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I talebani visti da vicino

Autore: Gigi Riva
Testata: L'Espresso
Data: 28 agosto 2009

Due anni dopo, Daniele Mastrogiacomo ha scritto un libro sul suo rapimento

In cima a un dosso, i profili di tre moto nere. Come in un racconto antico, il peggio lo annunciano dei moderni uccelli del malaugurio. Vede le moto, Daniele Mastrogiacomo, e intimamente ha già capito che quello è un sequestro. Finirà due settimane dopo con l’autista Sayed decapitato, l’interprete Ajmal decapitato e lui malconcio ma libero. Credevamo di conoscere tutto del sequestro del giornalista di “Repubblica”. Fu due anni e mezzo fa, ne sud dell’Afghanistan, per mano dei Talebani. Ne scrisse, copiosamente, lui stesso. Ne scrissero i colleghi. Se ne parlò in televisione. E invece, se i dati essenziali restano quelli noti, i dettagli generosamente dispensati nel libro “I giorni della paura” (edizioni e/o, 190 pagine, 16 euro) illuminano un panorama inedito, colorano di tinte ancora più forti la trama tragica, disegnano i tratti precisi di un mondo conosciuto all’ingrosso e per clichè approssimativi. Per il più approfondito e prezioso dei suoi reportage, Daniele Mastrogiacomo ha dovuto pagare un prezzo intollerabile. Risarcisce la fortuna di essere vivo con la scrupolosa ricostruzione di quanto è accaduto. E’ stupefacente di come sia riuscito a trattenere nella memoria (senza l’ausilio nemmeno di una penna) ogni più piccolo particolare. I quindici trasferimenti, il profilo di decine di carcerieri, le frasi, i pensieri. Fosse solo un’elencazione, saremmo di fronte a un asettico diario. Ma non c’è aggettivo che riesca a rimanere neutro quando in palio c’è l’esistenza. Bisogna attraversarlo il destino del prigioniero per restituirlo nella sua interezza. Mastrogiacomo dimostra a quali risorse di riserva un corpo possa attingere se costretto. Viene picchiato, più volte. Frustato, anche. E i talebani che infieriscono sono gli stessi che divideranno con lui il desco, persino lo vorranno arbitro di una abborracciata partita di calcio.

Esultano se dal mondo “fuori” arrivano buone notizie che possono preludere alla liberazione o ti staccano la testa se dall’alto arriva quell’ordine. Indifferentemente. La normalità del tagliagole si inserisce in quel lungo filone che Hannah Arendt ci ha insegnato a chiamare “banalità del male”. Adesso sappiamo qualcosa di più di questi studenti cornici che vorrebbero spacciarsi per puri difensori di un immaginario Islam bucolico. Si vorrebbero “giusti” quando non esitano a tradire la morale basilare che sta alle radici di ogni religione, non solo di quella di Maometto. Visti d vicino non sono semplicemente i feroci assassini che sappiamo, ma indulgono a debolezze terrene come la bugia, la mistificazione,, l’ipocrisia, il tradimento,. Mastrogiacomo si sforza interpretarli per scovare, anche da un piccolo segno, a quale sentenza è appeso il suo collo. E’ questa tensione a tenerlo terribilmente lucido. A ben guardarle, non è poi così smisurata la gamma di reazioni dell’animo. Lo schema è semplice. Ci sono tre uomini in cattività, le mani e i piedi legati. E ci sono altri uomini con un’arma in mano che esercitano la sopraffazione. Corpi padroni di altri corpi. Daniele controlla se stesso, i suoi muscoli, le vene e i nervi, li allena nella speranza che gli serviranno ancora. Sayed è disperato, Ajmal muto per il terrore del castigo. Non siamo tutti uguali davanti alla prova estrema. Il giornalista ci ha messo del tempo a mettere su carta ciò che è importante sapere. Ha usato sì gli strumenti del cronista, quegli che gli sono abituali, ma li ha dovuti dilatare nello spazio e nel tempo per renderne intellegibile il senso profondo. C’è un fatto e il suo rapido consumo attraverso Internet, la tv, l’informazione cruda. C’è lo stesso fatto e il suo consumo lento, la metabolizzazione, la comprensione dei meccanismi che lo rendono possibile. Nell’immediato serve sapere per prendere le contromisure urgenti. Ad anni di distanza serve sapere di più. Perché solo così un episodio eccede se stesso e, mondato dell’emotività spicciola, diventa paradigma.