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La straordinaria semplicità dei numeri uno: Piergiorgio Pulixi

Autore: Giusy Giulianini
Testata: Scrivere senza parole
Data: 21 febbraio 2017
URL: https://scriveresenzaparole.wordpress.com/2017/02/21/la-straordinaria-semplicita-dei-numeri-uno-piergiorgio-pulixi/

L’ho conosciuto da poco, Piergiorgio Pulixi, al Garfagnana in giallo 2016, quando l’ho presentato nella sestina dei finalisti del ‘Premio selezione giuria’, che lui poi ha vinto con Prima di dirti addio (E/O, 2016). Mi ricordo di averlo avvicinato, qualche minuto prima dell’evento, per presentarmi. Non lo conoscevo di persona, solo dai suoi romanzi, e quel ragazzo così giovane ma che aveva già vinto tutti i premi più prestigiosi mi metteva in soggezione. Senza nulla togliere agli altri finalisti, confesso che davanti a lui ero quasi intimorita. Non ho esitato a dirglielo ma la sua risposta e il suo sorriso accogliente hanno subito smentito il mio imbarazzo: ciò che è rimasto è l’impressione di una calda umanità, la stessa che traspare da questa intervista.

Un’infanzia piena di fantasia, la tua, accompagnata da amici immaginari modellati su personaggi alla Mark Twain, e un’adolescenza da studente ribelle, tra studi classici e rifiuto degli stessi. Le tue letture di formazione nel genere crime-horror seguivano, allora e soprattutto, modelli stranieri,: Stephen King, Michael Connelly, Robert Crais, James Ellroy, Thomas Harris.

Che cosa non trovavi, in quel momento, negli autori italiani di genere e che cosa invece apprezzi oggi?

In realtà non è che difettassero di qualcosa o che io non trovassi qualcosa in loro, semplicemente non conoscevo quasi per niente la scena noir/crime italiana. L’ho scoperta più tardi, verso i vent’anni, con Lucarelli, Carlotto, De Cataldo, e da lì sono andato indietro, con Scerbanenco, e ho continuato ad ampliare la mia conoscenza in quell’area letteraria. E devo dire che scoprire come quegli autori erano stati in grado di reinventare i canoni del genere, adattandoli alla società e al territorio italiano è stato elettrizzante, e mi ha mostrato quanto il noir potesse essere penetrante. Ciò che trovo ora, e che rende gli autori italiani di crime sui generis rispetto ai colleghi stranieri, è una sensibilità particolare verso alcune tematiche sociali, con casi come quelli di Carlotto o Lucarelli, per esempio, dove il noir diventa una chiave interpretativa per leggere ed evidenziare le distorsioni della nostra società. L’utilizzo del territorio come microcosmo che diviene in realtà macrocosmo universale è un’altra componente propria ai nostri giallisti. La capacità di sdrammatizzare grazie allo humour è poi una caratteristica molto italiana che stempera l’efferatezza e gli elementi più cupi dei noir e dei thriller, rendendo la lettura più piacevole e fluida.

Molti scrittori sostengono che, dopo un periodo di formazione in cui è d’obbligo assorbire il più possibile dalla lettura dei grandi maestri, si deve poi smettere per non influenzare la propria voce narrativa. Tu invece continui a leggere, quasi con atteggiamento compulsivo.

Ti sei mai accorto che qualcosa delle voci degli altri sia rimasto impresso nella tua scrittura?

Credo che sia un qualcosa di inevitabile, soprattutto agli esordi. Lo scrittore è per concezione una persona insicura, sempre in bilico tra l’insicurezza verso i propri mezzi espressivi e la paura di non riuscire a entrare in sintonia con i lettori. È quindi abbastanza naturale cercare un sostegno, una forma compensatoria di sicurezza, affidandosi allo stile di un autore che invece quella sicurezza stilistica la possiede. Ovviamente, questo non è un qualcosa di positivo, ma, come in tutti i percorsi di crescita, credo che sia un passaggio iniziatico necessario. Se andassi a rileggere i miei lavori passati, potrei distinguere nitidamente echi delle voci di autori che amavo molto, e che sono stati fondamentali per la mia formazione autoriale. Ogni autore è figlio delle proprie letture, e del modo in cui è riuscito a introiettarle e rielaborale attraverso la propria sensibilità e le esperienze di vita che lo hanno formato.

Mi piacerebbe pensare che avvicinandomi ai miei lavori più recenti quelle risonanze si siano fatte sempre più lievi, lasciando trasparire una voce più autentica e naturale. La mia.

La pubblicazione di Perdas de Fogu (edizioni E/O 2008), con Carlotto e il collettivo dei Sabot, ha rappresentato il tuo esordio editoriale.

Continui a ritenere valida l’esperienza del collettivo, anche oggi che sei un autore affermato?

Non ritengo di essere un autore affermato. Ogni libro è un’esperienza a sé. E ogni volta bisognerebbe come dimenticare tutto ciò che è stato, nel bene e nel male, e scrivere al massimo delle proprie capacità, mettendoci l’anima e il sangue, come se fosse l’unica possibilità che ci è stata regalata. La prima e unica opportunità. Se entri in questa forma mentis, che a mio parere è l’unica possibile se si vuole arrivare davvero al cuore dei lettori, parole come ‘affermazione’, ‘successo’, ‘fama’, sfumano, permettendo all’autore di concentrarsi soltanto su ciò che conta davvero: il romanzo. Per quanto riguarda l’esperienza nel Collettivo Sabot e la formazione con Massimo Carlotto, la ritengo basilare per la mia ricerca. Tutto ciò che ho cercato di costruire nel tempo è stato eretto sulle basi di quell’esperienza che mi ha formato sicuramente come autore, e nondimeno come uomo. Prima di quell’esperienza non avevo consapevolezza dei miei mezzi espressivi. Gli anni nel Collettivo mi hanno permesso di ampliare le mie conoscenze e quindi di affrontare la pagina bianca con più cognizione.

Con Prima di dirti addio, il capitolo conclusivo della saga poliziesca di Biagio Mazzeo, ti sei aggiudicato il ‘Premio selezione giuria’ del Garfagnana in giallo 2016, sezione appunto che ho avuto il piacere di presentare. Tra gli indubbi punti di forza del romanzo, va segnalato a mio avviso il sicuro passo da giornalismo d’inchiesta con cui pervieni a un realistico trattato sulla criminalità moderna.

Che ruolo ha occupato la ricerca tra le fonti giornalistiche nella stesura dei quattro romanzi della saga di Biagio Mazzeo? (n.d.r. Una brutta storia E/O 2012, La notte delle pantere E/O 2014, Per sempre E/O 2015 e Prima di dirti addio E/O 2016).

È stata basilare. Ho seguito i tentacoli della ʼndrangheta’ dalla Calabria fino al Messico e agli Stati Uniti. È stato un lungo percorso di documentazione e ricerca che mi ha lasciato snervato e basito, non per lo sforzo, ma per il marcio in cui, trasfigurando letterariamente la realtà, ho dovuto immergere i miei personaggi. Come diceva un autore a me molto caro, Luigi Pintor, “il Male ha una fantasia illimitata”. Seguendo l’inchiesta di “Prima di dirti addio” ho avuto contezza di quanto quell’affermazione fosse corretta.

E, ancora su questo tema, hai mai pensato di cimentarti nel giornalismo professionale?

Mi è capitato di scrivere qualche pezzo, e se dovesse ricapitare, scriverei di nuovo molto volentieri. Credo che un autore, per potersi definire tale, debba cimentarsi e confrontarsi con tutte le forme di scrittura, dalla sceneggiatura al racconto breve, dall’audiodramma alla poesia, dal saggio al giornalismo, e così via. Più esperienze di scrittura un autore riesce a esperire, più il suo sguardo e le sue capacità introspettive si faranno acuti. Collaboro con diversi blog, e scrivo parecchie recensioni su letture che mi hanno colpito. Ma, essendo il noir così legato alla cronaca, mi piacerebbe molto occuparmi di nera e cronaca giudiziaria.

Il noir, e non aggiungo volutamente il termine ‘genere’ perché a mio avviso carico di un’accezione limitativa, ritrae a colori cupi il disagio delle grandi città in cui imperano violenza, criminalità e degrado. Loriano Macchiavelli mi confidava qualche tempo fa che per lui ‘paura’ equivale proprio a quel disagio, a una perduta identificazione nel proprio contesto sociale.

E, per te, che cos’è la paura?

Credo che la paura assuma significati e dimensioni diverse a seconda dell’età. Sicuramente lo straniamento, un senso di totale scollatura con la comunità e la realtà, fa molta paura anche a me. Ultimamente, però, ciò che più mi fa paura è un senso di superficialità largamente diffuso. L’incapacità e la mancata volontà di voler andare alle radici delle cose, accontentandosi di verità ben confezionate che ingoiamo con atteggiamento dogmatico. Il web, che sulla carta avrebbe il potere di acuire la nostra profondità di sguardo, ci sta influenzando nella maniera opposta, abituandoci a bufale, notizie fake, che generano nelle persone quel senso di estraniamento che ti porta a vivere in maniera superficiale. Questo mi spaventa molto. Tutto può e deve essere messo in discussione; così, invece, c’è il rischio che nulla venga messo in discussione. Un’involuzione assai pericolosa.

Ancora a proposito di paura, tu sei un appassionato di graphic novel, da Dylan Dog in poi, e di serie televisive poliziesche come la francese Braquo o la statunitense The Shield.

Hai mai pensato di tradurre i tuoi romanzi in immagini e, in caso affermativo, a quali strumenti adottare per declinare la paura nei differenti mezzi espressivi?

Non mi pongo limiti. Sono sempre pronto a mettermi in gioco e a imparare. La mia scrittura è completamente al servizio delle storie. Alcune hanno bisogno di medium e mezzi espressivi diversi dal romanzo. L’autore, con molta umiltà e consapevolezza dei propri limiti, deve necessariamente andare ovunque la storia gli richieda di seguirla. Se questo è lo schermo di una tv, o la tavolozza di un disegnatore, non deve fare differenza. L’importante è che quella storia trovi la propria strada. Se così non fosse, la storia finirebbe per ossessionarti. Le storie sono come fantasmi. Svaniscono solo quando trovano una collocazione definitiva sulla carta o sulla pellicola. Ma se le ignori, ti tolgono il sonno e ti rendono la vita un inferno.

Il tuo Canto degli Innocenti (E/O 2015) segna l’esordio di Vito Strega, il tuo nuovo protagonista che come Biagio Mazzeo appartiene alle forze dell’ordine ma è dotato di un temperamento all’opposto: solitario portatore di un disperato senso di giustizia e di un dolore rabbioso, non è uomo d’azione ma riflessivo e dotato di vis psicologica.

Dei tratti distintivi di questi due personaggi che cosa ti appartiene e ti somiglia davvero?

Credo poco. Di Mazzeo, il senso di ribellione verso la vita e il destino, l’amore per il soul, e il forte attaccamento verso le persone che amo. Di Strega, la passione per i libri, il jazz, la filosofia, il fascino per le psicologie deviate e criminali, e il punto di rottura che fa scattare la follia omicida. Ciò che accomuna i due personaggi, invece, per quanto possano apparire a prima vista agli antipodi, è il fatto di essere dei “corpi estranei” alla società; sono persone che giocano secondo le proprie regole, e non sono disposti a piegarsi a nessuna istituzione pur di raggiungere gli scopi che si sono prefissi. Ciò li rende romantici da un certo punto di vista, ma profondamente tragici, perché sono costretti a non avere requie.

Fin dal tuo esordio hai collezionato una lunga serie di premi, i più prestigiosi riservati alla narrativa crime. Per citarne solo alcuni: nel 2015, il premio Glauco Felici per La notte delle pantere, il Franco Fedeli per Il Canto degli Innocenti e il Corpi Freddi Awards per lo stesso romanzo; nel 2016, il premio Prunola per L’appuntamento, il Serravalle noir come ‘miglior autore’, il premio Grotte della Gurfa per Il Canto degli innocenti e il premio selezione giuria del Garfagnana in giallo. L’anno scorso, hai anche rappresentato l’Italia al Crime Writers Festival in India e al Deal Noir Festival in Gran Bretagna.

Tu sei molto giovane. Rispetto ai tuoi coetanei, che in larga misura si muovono oggi tra disoccupazione e precariato, che cosa ti ha regalato il successo ed eventualmente di cosa ti ha privato?

Ogni arte esige un prezzo da pagare. Dedicare la propria vita a ciò che ci appassiona, ci rende vivi, ci entusiasma, però di contro ci costringe a rubare tempo agli affetti e a persone che avrebbero bisogno di noi. E il tempo è qualcosa di irreversibile. Non lo recuperi. Scrivere mi permette di fare qualcosa che dà un senso alle mie passioni, che mi regala brividi e libertà, ma il pegno, spesso, è la solitudine. Scrivere noir, poi, mi ha sicuramente portato ad avere una visione più corrotta delle cose, meno vergine; a vedere il mondo sempre attraverso le lenti del dubbio e dell’interesse. Questo alla lunga stanca.

Le interviste si concludono, per tradizione, con la domanda sui nuovi progetti. Già leggendo L’appuntamento (E/O 2014) ma anche il tuo ultimo Prima di dirti addio, ho avuto l’impressione che di recente siano la violenza psicologica e la conseguente analisi del profondo ad attrarti in particolare.

In futuro, dobbiamo aspettarci un tuo abbandono del noir per una convinta adesione ai modi del thriller psicologico?

Ogni storia si prende da sé lo spazio che sente di dover occupare. Da questo punto di vista lo stile, il genere, e la struttura che il romanzo assume hanno le stesse proprietà dell’acqua che si adatta alla forma del contenitore in cui viene versata. La storia è il contenitore, lo stile, invece, l’acqua. Finora le storie che ho scritto sono state dei noir e dei thriller psicologici, e anche il prossimo romanzo, che uscirà verso i primi di settembre, sarà anch’esso un thriller. Ma non è detto che sarà sempre così. Anzi. Mi piace esplorare nuovi territori narrativi e mettermi alla prova continuamente. Il genere non è importante. Ciò che è davvero importante, invece, è che la storia sia degna di essere raccontata.

Grazie a Piergiorgio Pulixi, per la meticolosa passione che ha trasmesso alle sue risposte. Una lezione, la sua, di profondità espressione e umiltà. E poiché oggi, sempre più spesso, si dice che l’acqua abbia memoria, mi auguro che l’acqua, come lui afferma, corrisponda allo stile e che di quella memoria anche noi possiamo serbare traccia. Sarà così, ne sono certa, perché Piergiorgio Pulixi possiede la straordinaria semplicità dei numeri uno.