In una società in cui anche solo il pensiero della morte è un tabù, per scrivere un libro sulla morte, per di più destinato ai bambini, ci vuole un coraggio da gigante. O forse basta essere Wolf Erlbruch, autore e illustratore tra i più importanti d’Europa, vincitore di numerosi premi, tra cui il Nobel della letteratura per ragazzi, il premio Andersen.
Ho conosciuto chi ha storto il naso, alla mia proposta di leggere – o far leggere – ai bambini un libro che parla della morte. Conosco tanti, quasi tutti, per cui la morte è uno dei più feroci tabù. Negarla o reprimerla è semplicemente parte della cultura dominante. Se proprio si deve, se ne parla in contesti specifici: all’ospedale, per esempio; o in qualche fondamentale, e ai più sconosciuto, testo di psicologia. De Andrè l’ha fatto apertamente, in quel meraviglioso album che è Non al denaro, non all’amore né al cielo. Ma sono in pochi. I più preferiscono tacerne. Al massimo, quelli ironici fanno le corna.
No, io non sono tra loro. Sarà un argomento scomodo. Ma io oggi questo libro lo porto a scuola.
Il lunedì e il mercoledì per me sono giorni di festa. Innanzi tutto entro alle 12,30, dopo una lunga colazione al bar; poi fare scuola di pomeriggio è più divertente che al mattino: quest’anno tengo un corso di scrittura creativa. Che, nella pratica, si traduce in un miscuglio di momenti di scrittura, lettura, disegno e giochi per inventare storie. Un modo come un altro per far appassionare i ragazzi ai libri. O almeno provarci.
Entro in classe con un pacco di albi illustrati sotto al braccio. Gli studenti mi guardano sospettosi. “Oggi leggiamo questi” dico, appoggiandoli di peso sulla cattedra. E, puntuale come la morte – per l’appunto! – segue l’abituale e fastidioso coro di no. “Non importa” dico io “chi non vuole leggere, farà i compiti per domani”.
Giro tra i banchi: chi studia spagnolo, chi inglese; chi ammette di non aver compiti. Qualcuno preferisce scrivere e io do il titolo di una fiaba: “Biancaneve e i sette giganti”. Altri invece mi dicono di voler leggere. E iniziano a guardare gli albi che ho portato. Sfogliano le pagine. Sono sorpresi. Tante illustrazioni e tanti colori. “Ma dove si comprano?” mi chiede qualcuno. Probabilmente non hanno mai visto un albo illustrato in vita loro.
È stato Andrea a scegliere per primo L’anatra, la morte e il tulipano. “Di cosa parla?” mi chiede “Della morte”. “Ma è triste?” e quel “ma” significa forse che lui non ha tanta voglia di tollerare una cosa triste. “Me lo dirai tu alla fine” e lo lascio lì, insieme a un compagno, a sfogliare pagine color crema su cui sono illustrati solo due personaggi: un’anatra col collo dritto e il petto in fuori, con l’occhio tondo, tra il curioso e il perplesso, talvolta socchiuso, quando è serena; e la Morte, con una lunga camicia a quadretti grigi, l’occhio infossato – è uno scheletro – e un sorriso beffardo. Mani dietro la schiena e spalle leggermente curve. Non fa paura. Se non fosse per quegli occhi, sembrerebbe una vecchina qualunque.
“E’ bellissimo” mi dice Andrea dopo poco, e ha gli occhi lucidi. “E’ molto triste” aggiunge Neander. Chi legge qualcos’altro si incuriosisce subito: “Quando ho finito il mio me lo passi?” e chi fa i compiti: “Allora prima lo leggo io”. Anche Davide rimane sorpreso: “L’unico difetto è che è troppo corto” dice serio.
Nel giro dell’ora successiva tutti leggono L’anatra, la morte e il tulipano. Addirittura litigano, rivendicando il loro diritto di essere i primi. Erik mi chiede: “Ma riguarda tutti, vero?” e io non posso dire bugie: “Sì, la morte riguarda tutti”. Lui ha lo sguardo un po’ oscuro. “Ti fa paura questa cosa? Ti rende triste?”. Scuote la testa, chiude il libro e ne prende un altro.
Emanuela mi chiede: “Ma cosa c’entra il tulipano nel titolo?”. È Davide a rispondere: “È il simbolo della morte”. “Ma anche del bene” interviene Erik “perché la morte gli vuole bene all’anatra”. La discussione è partita spontanea. Non sto a correggere la forma, oggi. Gestisco solo i turni di parola. In momenti come questi il mio lavoro è una grazia. “E poi non è triste” continua Erik “cioè, un po’ sì, ma anche un po’ no”. Li lascio parlare e scompaio davanti alla loro grandezza. Hanno solo undici anni. Sono quasi le quattro e mezza del pomeriggio, fuori è buio, manca poco alle vacanze di Natale. Ma nessuno sembra stanco.
Oggi, in questa scuola di periferia, si sta compiendo un miracolo: si parla di vita, di morte, di amicizia e amore.
A nient’altro serve un buon libro. Non a insegnare qualcosa. Né a dire cosa è giusto o sbagliato. A nient’altro, se non a parlare da cuore a cuore.