Parisa Reza è una scrittrice iraniana, trapiantata a Parigi giovanissima per studiare, città nella quale è rimasta, dove ha scritto in francese “Giardini di consolazione”, un romanzo ambientato nel suo Paese, tra gli anni Venti del secolo scorso ed il 1953, anno in cui viene allontanato con un colpo di stato Mossadeq, l’uomo che aveva dato tante speranze di democrazia al suo popolo e si riafferma il potere monarchico dello Shah Reza Phalavi, sostenuto dagli angloamericani per il predominio dei ricchissimi pozzi petroliferi. La storia che l’autrice ci racconta ci mostra un Paese arcaico, dove i contadini analfabeti prevalgono, dove la superstizione e le tradizioni più antiche sopravvivono, dove le donne esistono solo in quanto giovanissime mogli destinate alla procreazione e alla cura della casa e degli animali.
Così è per Talla, che vive in una sorta di oasi lontana dalla capitale, il villaggio di Qamsar; lo lascia all’età di dodici anni, in sella ad un asino, con il marito appena sposato a cui era stata promessa tre anni prima; il ventenne Sardar, infatti, innamorato del volto infantile di Talla, la sta conducendo fuori del suo mondo, dalla sua famiglia, allontanandola per sempre dalla morte atroce della sorellina Havva, uccisa dal padre perché faceva pipì a letto. Sardar è deciso a costruirsi una nuova vita, al di là delle montagne, vicino a Teheran: a Gholhak, un villaggio ai sobborghi della capitale, la coppia si stabilisce anche se la transumanza lo costringe a muoversi nella zona montuosa circostante. Talla lavora sodo, resta incinta, perde il bambino e per parecchi anni non riuscirà a concepirne altri: una situazione che la pone in difficoltà, visto che il ruolo di madre è l’unico apprezzato in quella società primordiale; intanto la nuova situazione politica costringe le donne a levarsi lo chador e a mostrare il volto per strada ad estranei; questo comporterà che molte donne preferiranno chiudersi in casa, piuttosto che esporsi in pubblico. Sette anni dopo la morte del primo figlio Talla mette al mondo Barham, un bambino sano e bello, a cui la madre è morbosamente attaccata, e a lui la scrittrice dedica la seconda e più ricca parte del romanzo; infatti attraverso la crescita di Barham, le sue amicizie, la scuola, gli studi, gli amori, la politica, il rinnovamento della società iraniana che avviene dopo la Seconda Guerra Mondiale, apprendiamo tanto su un pezzo di storia recente che a noi arrivava soltanto attraverso le pagine dei rotocalchi, grondanti di immagini dello Shah e della bellissima moglie Soraya, poi ripudiata perché sterile. Nel piccolo mondo di Talla anzi
“Gli stranieri sono talmente inverosimili (…) che le sembrano inoffensivi. Come disegni sul muro della sua vita. Come se la loro esistenza fosse si un altro mondo, senza possibilità d’incontro con quello di Talla”.
Barham invece vuole andare a scuola, vuole vivere nel suo secolo, vuole conoscere il mondo, si muove con i suoi amici per ottenere la classe superiore che nel paese natale ancora non c’è, è apprezzato da maestri e uomini potenti del posto, che individuano il suo talento e vorrebbero farne un esempio del nuovo corso della storia iraniana che tenta di uscire dal Medioevo; tuttavia il ragazzo resta pieno di contraddizioni che gli vengono dalla sua origine e che manifesta soprattutto nei confronti delle donne; appesantito dall’invadenza materna, cerca nelle ragazze quella libertà che lui non ha conosciuto, salvo poi tirarsi indietro quando le giovani donne che incontra gli dimostrano interesse, anzi compiono il primo passo:
“Una cultura millenaria come quella dell’harem e della favorita non si cancella dalla memoria degli uomini in dieci anni solo perché l’Iran è entrato nell’era della modernità. Anche se ufficialmente viene rispettata la monogamia, anche se rispettare i diritti delle donne è segno di eleganza in un paese dove il re non ha più harem da trent’anni e ha smesso di essere poligamo da dieci”.
Elaheh, la studentessa di lettere che Barham incontra all’università, ragazza intelligente e fortemente attratta dalla bellezza del ragazzo, verrà respinta perché troppo spregiudicata; lei gli scrive, e lo mette di fronte alle sue troppe paure e contraddizioni; lui le preferisce la bella Firouzeh, che somiglia ad Ava Gardner, che va al cinema con lui, gli concede un po’ di sesso rapido per poi scegliere un matrimonio di convenienza, lasciandolo senza rancore, a testa alta.
Nelle ultime pagine del romanzo, dedicate al colpo di stato che estromette dal potere Mossadeq per tornare ad un regime assoluto violento, vediamo la delusione cocente di un’intera generazione di giovani iraniani convinti che ormai si fosse davvero imboccata la strada della democrazia; Barham in attesa della controffensiva e degli arresti che certamente seguiranno il colpo di stato si rifugia in casa del padre del suo amico, il saggio e colto signor Tabarrok, capace di analizzare con tragica lucidità gli errori compiuti da Mossadeq, convinto però che la colpa del mancato progresso appartiene a tutti gli iraniani…
“Ecco perché nella mia vita e, mi dispiace dirtelo, anche nella tua e in quella dei tuoi figli, questo paese non conoscerà pace e libertà. Che dobbiamo farci della libertà quando l’asservimento è così tragico, la tragedia così poetica e la poesia così persiana?”
I giardini di consolazione sono a Shemiran, la città materna e protettiva,
“Shemiran è una donna orientale che non si oppone mai agli uomini, ma li avviluppa e li rasserena”
è il luogo dove torna Bahram, e dove ritrova i suoi genitori, il padre fuma la pipa, la madre prepara il tè, sono immobili, fuori del tempo e della Storia. Gli Iraniani sono all’ottanta per cento analfabeti, inconsapevoli, credenti musulmani, la strada appare tragicamente pronta per la dittatura religiosa dell’ayatollah Khomeini, che dopo pochi anni renderà il moderno Iran una prigione oscura.