Piergiorgio Pulixi talentuoso e giovane scrittore di origini sarde, fa parte del collettivo di scrittura Sabot creato da Massimo Carlotto, di cui è allievo. I suoi romanzi sono in corso di pubblicazione negli Stati Uniti, in Canada e nel Regno Unito e vincitore di numerosissimi premi letterari.
Tra le sue numerose opere è autore della saga poliziesca di Biagio Mazzeo, una quadrilogia che si è conclusa con l’ultimo capitolo della serie “Prima di dirti addio”. Il suo stile è inconfondibile, adrenalinico e lascia il lettore senza fiato.
“Nulla è per sempre. A parte il rimpianto e la vendetta. Mazzeo è stato trascinato all’inferno dai suoi errori e dai suoi nemici e ora è rimasto solo. Anche i suoi uomini l’hanno abbandonato. Ma prima dell’addio c’è un conto che deve saldare. Vatslava Ivankov, la donna che gli ha portato via tutto, deve morire. Solo così il poliziotto potrà avere pace. Con il quarto e ultimo romanzo della serie Pulixi fonde alla tragedia noir delle pantere, un’inchiesta dura e coraggiosa sul vero volto della ‘ndrangheta, multinazionale del crimine che ha cambiato la geografia del narcotraffico e della finanza criminale transnazionale”.
Piegiorgio Pulixi lei ha una storia interessante, ma anche a livello personale e artistico. Una prima curiosità che mi viene in mente, nella sua esperienza londinese ha avuto contatti con altri scrittori del posto? L’hanno “contaminato” in qualche modo?
In realtà, al di là di qualche festival e qualche presentazione, non ho mai avuto contatti diretti con scrittori inglesi. Londra da questo punto di vista è meno accentratrice di quanto lo sia invece l’Italia dove c’è più condivisione e coesione tra gli autori. Mi è capitato, però, di ascoltare autori che mi hanno profondamente influenzato come Neil Gaiman, e gli scozzesi Peter May, poco famoso qui in Italia ma davvero molto bravo, e Ian Rankin, una leggenda per me. Una cosa che mi ha colpito, soprattutto all’interno di quella che viene definita narrativa di genere, è il fatto che nel panorama anglosassone ci siano tantissime scrittrici in un numero pari, se non superiore, ai colleghi di sesso maschile.
Quando e qual è stato il suo primo approccio con la scrittura?
Ho dovuto pensarci un po’ per rispondere a questa domanda. Credo però che, scientemente, la prima volta che ci ho provato seriamente, con la speranza di ottenere qualche risultato, fu in occasione del lancio di “On writing” un saggio sulla scrittura del 2001 scritto da Stephen King. Rilessi quel libro decine di volte, affascinato dal rapporto tra King e la scrittura. Un rapporto non sempre idilliaco, spesso controverso, a volte quasi nichilista e in altre direi salvifico. Ha avuto un forte impatto sulla mia formazione autoriale, anche perché in quegli anni King per me era una divinità. La sua casa editrice italiana bandì un concorso per racconti. Il primo premio era un volo per il Maine, con la possibilità di conoscere King dal vivo. Partecipai, ma non vinsi. Perdere fu importante però, perché mi costrinse all’autocritica, un elemento essenziale per qualsiasi autore. Provai a scriverne un altro, e poi un altro ancora, cercando di migliorare di volta in volta. Avevo diciotto anni. È così che iniziò tutto. E da quel giorno non ho più smesso.
Qual è l’ingrediente fondamentale per una buona storia a suo avviso, e per lei cosa è l’originalità? E quali le cose da evitare assolutamente.
Non saprei dirti quale sia l’ingrediente fondamentale per una storia, anche perché ho il sospetto che non si tratti di un solo elemento, ma di una miscela di più caratteristiche. La “voce”, “l’impronta letteraria dello scrittore”, è ciò che più si avvicina a quanto mi chiedi, ed ha molto a che fare con la seconda parte della tua domanda: l’originalità. Ogni autore ha, o quantomeno dovrebbe avere, una propria voce. Un timbro, un colore, in grado di differenziarlo da tutte le altre “voci”. Tutti i più grandi autori hanno una voce. Da Tolstoj a Hemingway, da Faulkner a Steinbeck, da Gadda alla Morante. Tutti. La “voce”, al suo interno, contiene una commistione di tratti personali come la sensibilità, la visione del mondo, la grammatica dei sentimenti più o meno profondi, l’inclinazione verso alcune tematiche, l’essere preda di alcune ossessioni. Tutti questi elementi innervano inconsapevolmente la scrittura di ogni autore che riesce a trovare un angolo prospettico di visuale “originale”, nuovo, fresco, che dona un qualcosa di personale e univoco al suo tratto letterario e a situazioni e temi già abbondantemente eviscerati in passato, ma che con una “voce” personale assumono freschezza e nitidezza. Alcuni scrittori sono più fortunati di altri in questo; taluni trovano la propria “voce” sin dal primo romanzo, altri spendono un’intera vita a cercarla, invano. La “voce” è l’anima del romanzo. È l’essenza più pura che si disvela al lettore senza forzature, come un sussurro. Se ci si concentra troppo a trovarla, però, si corre il rischio di non riuscirci. Dev’essere qualcosa di naturale, che molto ha a che fare con le esperienze di vita dell’autore, e la sua intimità con la lettura e il racconto. Stando nella letteratura di genere, per fare un esempio, Raymond Chandler aveva una “voce” profonda e ben distinta. Molti dei suoi epigoni hanno provato e tentano tuttora di imitarne il timbro, giungendo a un fastidioso e risibile “falsetto”.
Se un libro non la prende, continua a leggerlo?
Dipende. Se sono particolarmente affascinato dal tema che l’autore sta esplorando, sebbene la scrittura non mi abbia ghermito, do una seconda possibilità e proseguo la lettura per capire come lo scrittore chiuderà alcune parentesi e archi narrativi. Se invece ho la sensazione che quel libro non abbia nulla da insegnarmi, allora l’abbandono senza alcun senso di colpa.
A parte il grande Carlotto, quali sono i suoi scrittori preferiti tra quelli classici?
Sarebbe un elenco infinito. Credo che chiunque abbia seriamente intenzione di dedicarsi alla scrittura, non possa prescindere dalla lettura di almeno centocinquanta romanzi che possono essere considerati “classici” che sono una sorta di spettro visibile di tutti i colori dei sentimenti, delle passioni, e delle sensibilità umane, tratteggiati negli ultimi quattro secoli. Sono formativi perché riescono a dare tutti gli elementi in grado di affrontare, da una parte la vita, e dall’altra la scrittura. Alcuni scrittori per me imprescindibili sono: Flaubert, Tolstoj, Gogol, Cechov, Goethe, Marai, Morante, Sciascia, Calvino, Poe, King, Lansdale, Cain, Dubus, Izzo, e tantissimi altri.
Potrebbe descrivermi con un aggettivo per ogni suo romanzo?
Un amore sporco: sensibile; Una brutta storia: viscerale; La notte delle pantere: rivelatore; Per sempre: doloroso; Prima di dirti addio: purificatorio; L’appuntamento: disturbante; Il Canto degli innocenti: inquietante; Padre Nostro: tragico.
Prima di dirti addio è l’ultimo capitolo della saga, cosa pensa del destino il suo Mazzeo?
“Ogni uomo non è quello che è in sé, ma ciò che rimane di lui dalla contrapposizione col proprio destino”. È una frase tratta dall’ultimo romanzo, ed è la visione di Mazzeo su quello che definiamo “destino”, o meglio su ciò che noi siamo in relazione col nostro destino. A livello personale, credo che noi, quanto esseri umani, siamo il risultato delle nostre scelte. Quindi la somma e il risultato delle nostre decisioni vanno a formare il nostro destino, il nostro percorso nella vita. Mi piacerebbe credere che nessuno di noi sia predestinato, e che quindi le nostre scelte e la nostra libertà d’azione non siano precluse da un qualcosa che regge e ingarbuglia i fili delle nostre esistenze; ma è oggettivamente evidente che il caos e il caso determinino ciò che siamo così come la nostra libertà d’azione all’interno dell’arena in cui lottiamo ogni giorno che è la vita. Se una persona nasce in una parte del mondo o un’altra, beh, il suo destino può cambiare e la sua gamma di possibilità può ridursi o ampliarsi a seconda di elementi e sovrastrutture totalmente indipendenti dalla propria volontà.
Un addio o arrivederci alla saga, ma altri progetti in cantiere con il collettivo Sabot?
Per i miei personaggi il destino è tutto ciò che possono controllare, tutto ciò in cui la loro volontà può incidere in positivo o in negativo, sempre ricordando un’altra frase estratta da un altro mio lavoro, “L’appuntamento”: tutti noi siamo liberi di scegliere, ma non siamo liberi dalle conseguenze delle nostre scelte. Mi piacerebbe che questo fosse sempre vero. In realtà, spesso abbiamo l’illusione di poter scegliere, ma le nostre scelte sono dettate da una volontà insensibile e caotica che non è la nostra, ma quella dell’ambiente in cui ci muoviamo e di alcune persone che giocano con le nostre esistenze.
Piergiorgio Pulixi è nato a Cagliari nel 1982. Fa parte del collettivo di scrittura Sabot creato da Massimo Carlotto, di cui è allievo. Insieme allo stesso Carlotto e ai Sabot ha pubblicato Perdas de fogu (Edizioni E/O 2008), e singolarmente il romanzo sulla schiavitù sessuale Un amore sporco, inserito nel trittico noir Donne a perdere (Edizioni E/O 2010). È autore della saga poliziesca di Biagio Mazzeo iniziata col noir Una brutta storia (Edizioni E/O 2012), miglior noir del 2012 per i blog Noir italiano e 50/50 Thriller e finalista al Premio Camaiore 2013, proseguita con La notte delle pantere (Edizioni E/O 2014), vincitore del Premio Glauco Felici 2015, Per sempre (Edizioni E/O 2015) e Prima di dirti addio (Edizioni E/O 2016). Nel 2014 per Rizzoli ha pubblicato anche il romanzo Padre Nostro e il thriller psicologico L’appuntamento (Edizioni E/O), miglior thriller 2014 per i lettori di 50/50 Thriller e vincitore del Premio Prunola 2016. Nel 2015 ha dato alle stampe Il Canto degli innocenti (Edizioni E/O) primo libro della serie thriller I canti del male, vincitore del Premio Franco Fedeli 2015, del Premio Corpi Freddi Awards 2015 e del Premio Grotte della Gurfa 2016. Nel 2016 gli viene assegnato il Premio Serravalle Noir. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati sul Manifesto, Left, Micromega e Svolgimento e in diverse antologie. I suoi romanzi sono in corso di pubblicazione negli Stati Uniti, in Canada e nel Regno Unito.