Un albero d’arancio allunga la sua ombra in un giardino curato. Veglia in silenzio, s’innalza maestoso, spande il profumo dei suoi frutti nell’aria calda del Sud America. È fatto di foglie, tronco e radici, le quali affondano in un terreno che ascolta silente, ogni giorno, i passi sul selciato di una ragazza. Lavinia ha lasciato la sua casa borghese per vivere da sola nella dimora della zia, morta portandosi via l’unica speranza di essere compresa. È un architetto, trova lavoro in uno studio, si muove con incredibile impaccio in un mondo dorato per chi può permetterselo e nero come la morte per chi vive di stenti. Non sa di essere osservata – e penetrata – giorno dopo giorno, da una presenza costante nella sua vita. Non sa di essere vegliata, prima da lontano, poi sempre più dall’interno, da uno spirito guerriero che si è fatto natura. È lei la donna abitata che dà il titolo al libro, è lei la nuova Itzà destinata a combattere contro il nemico del popolo.
Nel suo giardino curato, infatti, vive una creatura che si è reincarnata in forma altra: una donna atzeca, morta in battaglia e sepolta nella sua terra. Ha combattuto i conquistadores, coloro che imponevano col sangue la forza della propria religione, sostituivano le divinità con i santi cattolici, occupavano una terra incolta cavalcando esseri ignoti che a un primo sguardo apparivano un tutt’uno con i loro corpi. Ha perso la vita valorosamente come perse il suo amore, vivendo e battendosi, sempre, contro ogni forma di oppressione.
Come richiamata da un bisogno impellente, Itzà torna alla vita sotto forma di linfa d’arancio:
«All’albeggiare emersi […] mi sono ritrovata sola per secoli in una dimora di terra e radici […] penetrai l’albero e lo percorsi come una lunga carezza di linfa e di vita […] Ma l’albero ha assunto il mio calendario, la mia vita; il ciclo di altri crepuscoli. È tornato a nascere, abitato da sangue di donna. Nessuno ha sofferto questa nascita, come accadde quando sporsi la testa tra le gambe di mia madre. Questa volta non ci sono state incertezze, né lacerazioni nella gioia».
Da albero fruttifica – e vivifica – i sentimenti e l’agire di una giovane dai natali agiati, ribelle più di facciata che d’essenza, timorosa, timida, persino indifferente, a un certo punto, nel senso gramsciano del termine. Lavinia è l’emblema della rivoluzionaria che non ha la forza di agire, preferendo parteggiare da casa per le sorti migliori. Vive a Faguas, immaginaria città dell’America Latina, ha sotto gli occhi le ingiustizie e le diseguaglianze di un Paese governato col sangue da un Grande Generale che dispensa orrori spacciandoli per opere di bene. Sa di pensare nel giusto e le basta così, niente azioni sovversive, niente passi avanti per cambiare le cose.
Immagine della Rivoluzione Sandinista in Nicaragua che portò alla deposizione di Somoza
Persino Felipe, l’uomo che ama, quasi la disturba introducendo in casa sua – territorio franco – il compagno ferito in un azione del Fronte di Liberazione Nazionale. Non è più la rivoluzione che passa alla radio, non sono più i volti senza nome che appaiono sui giornali. La Storia entra in casa senza bussare alla porta, si ferma lì, con il volto sofferente di chi ha perso troppo sangue, la voce struggente di chi nel pianto ha paura ma continua a lottare.
Lavinia ha timore, ribrezzo, reagisce chiudendosi e tenendo la sua vita agiata, da figlia ricca ribelle sulla carta, lontana da quella del fidanzato, troppo incosciente, troppo sul campo. Ma qualcosa in lei inizia a mutare. Passa dalla bocca, giunge allo stomaco, ha il sapore d’arancia con una proprietà nutritiva in più. Itzà entra come linfa nel corpo di Lavinia, la influenza con la sua saggezza, mitiga le sue paure, la induce a combattere per qualcosa di concreto.
Allora sulla scia di un passato che non muore, ripercorrendo le orme dell’amore della sua vita, la giovane si scontra con la dittatura del Grande Generale, agisce in nome dell’eterno ideale di giustizia e matura, sulla scorta delle esperienze, per compiere il passo decisivo da ragazza bene a donna adulta, da spettatrice inerte a protagonista assoluta.
Non c’è più spazio, allora, per farsi dare del “lei” dalla collaboratrice domestica, per ripassare con cura lo smalto sbeccato sulle unghie delle mani. In un Paese in cui i piedi delle persone sono neri, dalle dita callose e accavallate, c’è posto solo per una certa vergogna che induce a nascondere i propri, fasciati da sandali, sotto la sedie mentre si è in fila dal medico, in mezzo alla disperazione di un’umanità prigioniera. Lavinia compie uno scatto che è proprio solo di chi prende coscienza del proprio ruolo, di chi sa che non basta più alzare la voce nel salotto di casa per restituire dignità a un mondo che non ne ha più.
Combattere resta la sola cosa da fare, anche a costo di rischiare davvero, di farsi albero a propria volta con la saldezza dei guerriglieri immolati per un bene più grande.
E allora il Nicaragua, di cui Gioconda Belli ci fornisce un’immagine nitida, trasferendo su carta il proprio vissuto nella lotta armata del Fronte Sandinista, assume i contorni di un posto in cui è ancora possibile sperare, in cui c’è ancora spazio, forse, per restituire i diritti a tutti. Solo così il sacrificio di molti non sarà stato vano, solo così potremo guardarci intorno con attenzione e sentirci parte di un tutto che merita rispetto e amore:
«Nessuno sarà padrone di questo corpo di laghi e vulcani
di questa mescolanza di razze,
di questa storia di lance;
di questo popolo amante del mais,
delle feste al chiaro di luna;
del popolo dei canti e dei tessuti di tutti i colori.
Né lei né io siamo morte senza un progetto, senza lasciare un’eredità.
Siamo tornate alla terra da dove ancora torneremo a vivere.
Popoleremo di frutti carnosi l’aria dei tempi nuovi.
Colibrì Yarince
Colibrì Felipe
danzeranno sulle nostre corolle
ci feconderanno eternamente.
Vivremo nel crepuscolo della gioia
nell’alba di tutti i giardini.
Presto vedremo il giorno colmo di felicità
le imbarcazioni dei conquistatori allontanarsi per sempre.
Saranno nostri l’oro e le piume
il cacao e il mango
l’essenza dei sacuanjioces.
Chi ama non muore mai»