Ester Nilsson ha 31 anni, una vita morigerata in cui tutto ha avuto modo di trovare il proprio posto. Laureata in filosofia, è certa che il gioco delle idee possa configurarsi disincarnato, neutrale. La scrittura, sia critica che poetica, è la sua attività principale. Ha un compagno con cui vive e che la lascia in pace, soddisfa abbastanza i suoi bisogni fisici e a volte mentali. Nell’equilibrio acquisito, privo di strappi e pericoli, ha sempre creduto alla pretesa che il mondo «fosse così come lei lo sperimentava».
UN AFFIDAMENTO analitico percorre l’esistenza della giovane Ester, protagonista dell’intenso romanzo scritto da Lena Andersson, Sottomissione volontaria (e/o, pp. 167, euro 15, traduzione di Carmen Giorgetti Cima). Il suo è un sentire sinuoso e rotondo, da mettere tra le parentesi rassicuranti della sospensione del giudizio. I concetti, da sviscerare come unica via verso la conoscenza, avvertono «lo iato spaventoso fra pensiero e parola, volontà ed espressione, realtà e irrealtà, insieme con quanto cresce in questi spazi vuoti».
Oltre al pregio di un incedere ipnotico, il romanzo della scrittrice svedese racconta la caotica vischiosità di alcune relazioni sentimentali. Il tenore è tuttavia quello obliquo della trasformazione che comincia per Ester dall’incontro con Hugo Rask, artista eclettico molto più grande di lei e amante dei massimi sistemi, sul cui lavoro lei viene chiamata a tenere una conferenza. Già mentre compone il testo critico comincia ad avvertire una consonanza al limite dell’erotico con l’oggetto delle sue attenzioni.
L’aspettativa temporale toccata da Ester è descritta come «un’unica grande mancanza», straniante e immedicabile in cui precipitare senza freni. Il varco inesplorato prende allora le sembianze dell’adesione grata contenuta nelle parole di Hugo che, ascoltato l’intervento critico sul proprio lavoro, le chiede di rivedersi per una chiacchierata successiva. Lei suppone sia una grande occasione di scambio, lui pensa a un rinnovato modo per titillare il proprio ego smisurato. «Una ricerca del segno per la cosa, come nel mondo delle idee di Platone», di questo discetta Hugo Rask, insieme ad altre mirabolanti questioni, al suo codazzo di collaboratori in vibrante ascolto dell’oracolo.
NELLA PROFONDITÀ di Ester di leggere attraverso le cose, forse qualcosa si erotizza anche in lui, almeno per riconoscenza o semplice moto onanistico, chissà. Così, mentre lei immagina il piacere sessuale che li attende, lui scambia la seduzione intellettuale di lei come pura forma di ammirazione. Ed è il panico dei malintesi.
Il breve elenco degli incontri sessuali, che avverranno a tempo determinato, seguono interpretazioni, congetture e proiezioni. Da qui comincia la singolare peregrinazione di Ester. Segue Hugo, lo aspetta, diventa bugiarda per fare finta che il caso esista, che in un futuro lui si accorgerà.
AL PIACERE, consumato dopo molti mesi di conversazioni sull’etica dei principi o delle conseguenze, sul rapporto io-tu nell’arte contemporanea passando per Buber e il cinismo camusiano de Lo straniero, si sostituisce ben presto una mendicanza amorosa, quella forma sbilenca ed erratica che appartiene al disordine del donarsi ad altri fuori misura; la mendicanza amorosa che approfitta di una deprivazione originaria – appartenente mediamente e altrettanto banalmente a chiunque – per non essere stati visti. E da lì si comincia a esigere risarcimento.
Strana cosa questa dell’aver fame d’amore e poi permettere a chi è già sazio di poterne fare scempio. Il titolo del romanzo è infatti fuorviante; con Ester Nilsson non siamo in presenza di nessuna sottomissione, tantomeno volontaria. Lena Andersson invece descrive l’orlatura della sofferenza e il meccanismo della dipendenza, con una certa spiazzante sicurezza, dettaglia l’incapacità fragile e scomposta difficile da ammettere.
ECCO, OSSERVATE, sembra suggerirci la scrittrice, quello è il cunicolo di inedia in cui va a finire la vita di una donna intelligente e avvertita che chiama «desiderio» la tortura di un oggetto d’amore indisponibile, trasognato, intercambiabile e al contempo necessario. Quella donna resta comunque libera, ma il resto è un imbroglio e Hugo Rask è il prototipo di quell’impostura relazionale in nome di più alte e del tutto irrilevanti teorie.
SULL’ALTARE della corrispondenza tra «il soggettivo che era l’oggettivo e l’oggettivo che era il soggettivo», si sacrifica tutto ciò che avanza. E si tiene stretta la propria infelicità, brandendola come un’intimità incompresa. L’unica via di uscita diventa la narrazione di sé, il miracolo di autorizzarsi alle contraddizioni e trovare le parole, sempre più dense, clementi e imprevedibili di quante ne sogni la filosofia. Compresa quella di Ester Nilsson.