Nel 1944 Sándor Kopácsi è un giovane operaio. Viene dal nord dell’Ungheria e si unisce alla Resistenza contro i tedeschi. Saluta con entusiasmo l’arrivo delle truppe sovietiche e, quindi, la liberazione, in seguito alla quale entra nel partito e conosce una rapida carriera che lo porterà a diventare questore di Budapest a soli trent’anni. Come tale, andrà incontro a quel fatale autunno del 1956 che Kopácsi racconta in Abbiamo quaranta fucili compagno colonnello (edizioni e/o, pp. 419, euro 18, traduzione di Angela Trezza, postfazione di Aldo Natoli), il romanzo della sollevazione popolare ungherese in cui la vicenda personale del narratore si intreccia sempre più strettamente con quelle di una Budapest e di un intero paese in fiamme.
Kopácsi crede nel socialismo, nella sua capacità di ricostruire materialmente e moralmente la sua Ungheria uscita pesantemente sconfitta dalla Seconda guerra mondiale dopo essersi messa dalla parte della Germania di Hitler.
CREDE NEL PARTITO e nella sua capacità di agire per il bene del paese anche quando, alla fine degli anni ’40, hanno luogo processi montati ed esecuzioni nei confronti di dirigenti del partito accusati di deviazionismo titoista. La prima vittima è László Rajk, che viene accusato di aver ordito un complotto con la Jugoslavia di Tito e con gli imperialisti contro il governo del suo paese.
Una volta diffusasi l’accusa negli ambienti militari e della sicurezza, József Szilágyi, superiore diretto di Kopácsi, dice a quest’ultimo che non c’è niente di vero. «Il compagno László Rajk non è colpevole – gli confida -. È una storia montata dai servizi di sicurezza sovietici e dai loro colleghi ungheresi». L’autore e protagonista del racconto è incredulo e colto da stupore. Gli ci vorrà del tempo per rendersi pienamente conto di quanto accaduto in quella particolare fase della storia ungherese e per ripensare alla vicenda di Rajk, giustiziato nel 1949.
Sono gli anni di Mátyás Rákosi, all’epoca segretario generale del partito. Uomo dal potere pressoché illimitato, con un passato significativo: il battaglione ungherese delle Brigate Internazionali che avevano preso parte alla guerra di Spagna portava il suo nome. Kopácsi è emozionato la prima volta che si presenta al suo cospetto, e nota che quell’uomo è informato di tutto e indovina tutto. Diventerà suo addetto prima di essere nominato questore.
GLI AVVENIMENTI si snodano davanti agli occhi di un Kopácsi che identifica i suoi obiettivi con quelli del partito, la sua fiducia in esso è incrollabile anche nel periodo delle persecuzioni volute da Rákosi ai danni dei presunti nemici del sistema. Non ha la capacità critica di esaminare accuratamente i fatti e mostra una certa ingenuità nella fede che coltiva verso la massima istituzione dell’Ungheria di allora. Conosce bene il mondo operaio e ha modo, in diverse occasioni, di mostrare la sua umanità anche da questore di Budapest, una carica importante nella quale continuerà a sentirsi al servizio del popolo e che non concepirà mai in modo prevalentemente burocratico.
NEL MARZO DEL 1953 piange per la morte di Stalin, ma dopo lo choc della denuncia dello stalinismo e dei suoi crimini da parte di Nikita Chrušcëv, a margine del XX congresso del Pcus, nel febbraio del 1956, smette di avere fiducia in Rákosi, definito «il miglior allievo di Stalin». Non si rende, però, realmente conto di quanto accade in Polonia e a Budapest nel prosieguo di quello stesso anno. Non sa dare ancora l’esatto valore ai funerali e alla riabilitazione di Rajk ed è sorpreso dalla manifestazione del 23 ottobre che condurrà all’insurrezione. Nel corso dei disordini e dei combattimenti farà del suo meglio per svolgere le mansioni a lui affidate in quanto questore. Cercherà sempre di fare scelte dettate dal senso dell’equilibrio pur sentendosi spaesato a causa del rapido – e per lui ancora incomprensibile – svolgersi degli eventi dai quali verrà trascinato come in un vortice, e saranno gli intenti del governo guidato da Imre Nagy a farlo passare dalla parte degli insorti che finisce per considerare la vera anima del movimento operaio al quale resta fedele. Di questa scelta dovrà rispondere dopo la repressione della rivolta, quando dovrà sottoporsi alla giustizia dei vincitori.
SÁNDOR KOPÁCSI racconta questa storia in prima persona descrivendo un’Ungheria che passa dai fermenti postbellici a quelli della sollevazione popolare. Su questo sfondo ha luogo la storia d’amore con la moglie Ibolya, bella partigiana dalla quale ha una figlia, Judit, che nei giorni trascorsi da rifugiata all’ambasciata jugoslava di Budapest con alcuni membri del governo insorto, si affeziona alla figura bonaria del primo ministro che chiama «zio Imre». In lei Sándor vede sua madre che da piccola, nel cortile della casa operaia in cui abitava, sparava contro gli aerei dell’esercito bianco. Ma questo succedeva nel 1919.