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Ventenni nel Ventennio

Autore: Achille Pisanti
Data: 15 aprile 2009

Presentazione del romanzo “Un Bell’Avvenire” di Marco Videtta edizioni e/o Napoli, Caffè letterario Intra Moenia 15 aprile 2009

Personalmente ho impiegato molti anni a capire che non sempre i prodotti culturali “belli” erano anche “importanti”, e non sempre quelli importanti, belli. Ovviamente, quando un libro, un film, un quadro era bello e importante, era più bello perché anche importante, e più importante perché anche bello. E’ questo il caso del romanzo di Marco Videtta, “Un Bell’Avvenire” : molto bello e importante. Intanto Videtta aveva già scritto un romanzo a quattro mani con Massimo Carlotto, “Nord-Est” e quello, che era un noir con un forte intento di denuncia sociale, già aspirava alle categorie della bellezza e della importanza. Ma in questo “Un Bell’Avvenire” le due cose si pongono con più profonda traccia. In realta’ l’autore aveva scritto molti anni fa un saggio sul viaggio nel cinema americano degli anni settanta, e più avanti vedremo come quel libro, lontano nel tempo e nei contenuti, tuttavia ha anche esso a che fare con questo suo ultimo romanzo; il titolo di quel saggio era “ La Fuga Impossibile”. “Un Bell’Avvenire” si presenta fin da subito, da quella sorta di teaser molto efficace in cui un personaggio subisce il proprio smacco, viene annientato, e di lui si dice subito : “ Ma chi era ?” “Bah, sarà stato un fascista !”, si presenta dicevo come un romanzo di detection di genere noir. Intanto è bene sapere fin da subito che quel teaser è ambientato il 25 aprile del 1945, e che il tempo del racconto copre alcuni mesi del 1948, il tempo reale intendo, ma una abile tessitura di memorie e di flashback fa si che il tempo raccontato copra una decina di anni, dai secondi anni trenta sino all’attentato a Togliatti.

La frase che apre il primo capitolo del romanzo, a seguire il teaser, è la seguente: “Lo desideravo da tempo”, ed è una frase importante perché il desiderio pacificato di Fulvio di visitare alcuni luoghi grondanti di memoria , per un corto circuito informativo che non va svelato, si trasforma fin da subito nel desiderio ossessivo di scoprire le circostanze della morte del fratello maggiore Lucio, quello che “Bah, sarà stato un fascista!” (a partire da un certificato di morte che lo dichiara fucilato dai partigiani). Ma , attenzione, anche il fratello minore Fulvio è stato un fascista, ed anzi, come si vedrà molto presto (ed uso il verbo vedere proprio perché questo è un romanzo estremamente visivo) il fascismo di Lucio ha rappresentato il riferimento mitologico, il modello da imitare, per il fascismo di Fulvio. Dunque, Lucio e Fulvio Amitrano, due ragazzi napoletani della collina del Vomero, di quelli che vivono i loro vent’anni nel pieno del ventennio, di quelli che hanno creduto nel Fascismo, soldati della Repubblica Sociale Italiana, o, più fanaticamente, repubblichini di Salò. Due giovani ardimentosi, gagliardi, che hanno incise nella mente e nel cuore parole come queste : “La scienza, la volontà, la fede possono mitigare l’effetto delle forze non benefiche della natura”.

Come sono stati raccontati fino ad oggi ragazzi come Lucio e Fulvio ? La tradizione più ideologica del neorealismo li ha percepiti più o meno sempre dalla parte dei cattivi, e lo stesso revisionismo di questi anni ancora non ce ne ha fornito un’immagine più complessa ed umana. Di maggiore portata umana è sicuramente il racconto che di ragazzi come questi ci ha fornito la commedia all’italiana. Essa è stata un genere formale estremamente adatto a rappresentare le forzature anche caricaturali del Fascio (pensate a Sordi, Tognazzi, Gassman nei film di Comencini, Monicelli, Salce etc) e la dimensione di dispersione, di confusione, di mancanza di certezze di ragazzi alle prese con la dittatura prima, l’8 settembre dopo, e con la guerra civile che ne è conseguita. In casi letterari particolari e di grande portata analitica, penso ad esempio al personaggio di Marcello ne ”Il Conformista” di Alberto Moravia, si è arrivati addirittura a raccontare l’adesione al Fascismo e l’anelito all’ordine come tentativo riuscito di oscurare il riconoscimento della propria omosessualità, sostituendovi l’ideale maschio e virile dell’uomo fascista.

Ma nel romanzo di Videtta questi personaggi si arricchiscono di una dimensione sfaccettata e complessa che raramente avevamo incontrato. Videtta affronta il racconto di Lucio e soprattutto di Fulvio Amitrano con una sorta di commosso realismo che mescola comportamenti e psicologie con un tratto naturale e mai banale, svelandoci, senza mai interpretarla, l’adesione di questi giovani ai loro ideali, la purezza non superoministica della loro idea (per Fulvio, almeno), l’ingenua constatazione della bellezza della guerra (in una lettera Fulvio scriverà che la guerra è bella perché attraverso di essa lui ha conosciuto l’amore…). Insomma far vivere questi personaggi nella vividezza contraddittoria della loro avventura esistenziale. Proprio per questo l’indagine che a caldo il fratello minore avvia andando su e giù per l’Italia che si sta ricostruendo, ha le caratteristiche di una ricostruzione interiore, e in tal senso, dentro la cornice del genere noir, il romanzo si arricchisce di una sua dimensione di romanzo di formazione. Luoghi, persone, lettere, documenti: di stazione in stazione Fulvio accumula informazioni rivedendo e riascoltando scenari e personaggi che trasudano memoria. Stazioni reali (Fulvio deve sempre prendere un treno, scendere in una stazione, trovare un treno per ripartire, etc) ma anche stazioni di un percorso di conoscenza e dolore . In alcuni momenti Fulvio arriva ad interrogare le mura, le pietre, gli oggetti, ed essi rispondono evocando nella sua mente micro-visioni che sono anche flash-back, con una tecnica narrativa molto efficace visivamente , come se ci trovassimo su varie CSI da interrogare…

E qui segnaliamo subito la prima caratteristica che arricchisce il genere noir : ogni viaggio di Fulvio, ogni stazione, serve sì ad aprire uno spiraglio sul percorso futuro, a rilanciare la detection cioè, ma serve anche ad aprire una finestra sul passato. Pezzi di passato che si vanno a ricomporre nella ricerca ossessiva di Fulvio Amitrano, raccontandoci la storia e le storie che l’autore ci vuole raccontare con un continuo andare avanti e tornare indietro, tornare indietro per potere andare avanti, con un movimento che ci ricorda quello dell’elastico nell’inseguimento ciclistico. E fin dall’inizio di questo percorso il lettore intuisce qualcosa che lo fa scivolare in una modalità di lettura diversa : quegli incontri, quelle “stazioni”della detection non sono solo gli snodi narrativi tipici di una storia noir con la esse minuscola, ma sono anche gli approcci con i diversi punti di vista della Storia con la esse maiuscola, cioè la storia d’Italia. Ed ecco allora che la pressione noir del romanzo rallenta, tra le maglie delle storie spunta l’ambiguità e l’ambivalenza della Storia. Tra questi incontri-stazioni emergono, per densità e suggestione, quello con Franco Calamandrei, vicecomandante dei Gap romani, quelli dell’attentato di via Rasella, per intenderci, e, in una luce completamente opposta, quello col viscido don Alfonso Leonida Vacca, monaco benedettino affiliato ed emergente nella banda Kock.

Cominciano nella mente di Fulvio ed in quella del lettore ad avanzare domande di tipo concettuale : - sono punti di vista o sono verità ? In queste storie chi sta mentendo e perché ? Chi sta coprendo chi ? Chi sta fornendo un alibi a chi ? - …o forse le verità della Storia sono sempre punti di vista, e dunque fantasmi da contrapporre a fantasmi ? - …o forse infine la fantasmaticità è funzionale proprio al nascondimento della realtà nei passaggi chiave della nostra Storia, al punto da generare inquietanti interrogativi del tipo : come si è usciti dal Fascismo, come si è entrati nella Democrazia ? Come vedete qui siamo nel pieno di quella crescita da romanzo bello a romanzo importante di cui parlavo all’inizio. L’ambiguità e l’ambivalenza. Quelle della Storia, ma anche quelle dei personaggi. C’è un gran lavorìo di Videtta sui suoi personaggi , ed esso è sempre orientato alla ambiguità ed alla ambivalenza. Nella tipica narrazione di genere noir ambiguità ed ambivalenza permeavano la figura della dark-lady , la quale, proprio attraverso di esse riesce a trascinare il protagonista-vittima negli inferni della passione, o del crimine o della abiezione morale. Ora, tenendo presente che in quegli stessi anni simili concetti contribuivano a determinare la dissoluzione del personaggio nei romanzi della letteratura cosiddetta alta e decadente, dobbiamo notare che in questo romanzo tutti i personaggi vivono e sono esaltati narrativamente dalla loro ambivalenza. Non c’è un solo personaggio che attraversi granitico ed univoco la vicenda dall’inizio alla fine, tutti appaiono progressivamente diversi da se stessi, Lucio in prima istanza, ma a ricaduta successiva tutti gli altri, compreso il protagonista Fulvio, colui che cerca la verità, e che, pagina dopo pagina, svela le sue zone d’ombra come reazione quasi chimica alle ombre degli altri e della Storia tutta.

Ora io non voglio usare esempi tratti dal libro, non voglio citarne brani per rispettare la suspence che attraversa il romanzo dall’inizio alla fine, ma, credetemi, se e quando lo leggerete, vi sentirete analiticamente attratti non tanto dalle ambivalenze del fratello scomparso, che sono clamorose e molto dolorose, quanto da quelle del fratello minore che vive e segue il proprio percorso d’indagine. Interrogando tali ombre , a partire dai suoi sensi di colpa nei confronti del fratello maggiore, vi renderete conto di alcune cose sorprendenti che ora elenco alla rinfusa, perché spetterà al lettore dar loro un ordine : - Fulvio insegue ma in realtà è inseguito, ricerca ma in realtà fugge (la Fuga Impossibile ?). Vuole sapere per potere dimenticare. - Fulvio adora il fratello maggiore, ma in realtà l’intera sua vicenda consiste nel riuscire ad emanciparsi da lui, dalla sua ingombrante presenza di tipo smaccatamente paterno. Insomma, di rifiutarlo. - Dunque forse non di un fratello si tratta, ma di un padre travestito da fratello. - Fulvio quindi pratica la immedesimazione per riuscire a trovare il suo opposto, cioè l’estraneità, dal fratello maggiore e da tutta la vicenda romanzesca. - La costruzione della estraneità è la chiave per la comprensione di questo romanzo. Se queste suggestioni hanno fondamento, allora io mi chiedo se anche la Storia con la esse maiuscola non abbia sempre a che fare con il rapporto/scontro tra padri e figli da tutti i punti di vista (vedi ancora l’incontro con Calamandrei) se ad esempio il Fascismo sia stato il padre rifiutato della Democrazia, oppure esso sia stato il figlio degenere della Democrazia stessa. Il libro di Videtta certamente, su un piano concettuale, mette in gioco queste questioni generali e delicate.

Come vedete ora siamo scivolati su un terzo livello di lettura del romanzo: il primo era il genere noir, il secondo i dubbi e le illazioni sulle verità della storia italiana, il terzo queste considerazioni complessive che interpretano personaggi ed avvenimenti con una urgenza etica ed analitica per svelarne l’ambiguità profonda, la più emergente delle quali sarebbe quella che dimostra una sorta di continuità e contiguità tra Fascismo e Democrazia sul piano trasversale di scelte istituzionali. Avendo parlato di uomini e di padri, permettetemi ora per un momento di parlare di donne e di madri. Tutti i personaggi femminili del romanzo mi sembrano complementari tra loro, e si vanno infine ad integrare nella figura molto affascinante della dark lady. Per arrivare ad essa Fulvio incontra, vive e sfugge da vari personaggi femminili, e verso tutti egli coltiva l’attrazione in eguale misura al disprezzo e ad un fastidio quasi fisico. A partire da quella madre così distante e repulsiva, madre biologica ma anche città natale, la mamma Napoli, rifiutata per sfuggire alla sua nauseabonda visceralità, salvo poi proiettare approcci materni proprio sulla dark lady del romanzo.

Non ci resta che affrontare l’ultimo tema di questa presentazione : l’importanza del libro riguardo alla banda Kock. Nel romanzo giocano un ruolo determinante le scoperte di Fulvio riguardo alla famigerata banda Kock, un gruppo di nazisti italiani assassini, stupratori e seviziatori, in vario modo utilizzati dalle istituzioni poliziesche ufficiali. Nelle viscere di questo inferno che la detection di Fulvio mette in luce, la banda di Pietro Kock assume un ruolo centrale. Ora io non voglio entrare nel merito storico della vicenda, ma solo segnalare alcune cose che ritengo molto interessanti. Intanto, per chi poco o niente sa di questa vicenda, voglio ricordare che proprio la crudeltà e la perversione estreme che la caratterizzano hanno fatto sì che Pier Paolo Pasolini potesse associare la repubblica di Salò alle 120 giornate di Sodoma del marchese De Sade, nel suo ultimo film. Ok, insomma c’è un ruolo terrificante svolto da questa banda di assassini e seviziatori con funzione di controllo poliziesco e politico. Bene. Per approfondire l’argomento ho consultato l’ultimo volume ndella Storia d’Italia Einaudi, un tomo di 2800 pagine, dall’unità d’Italia ad oggi, di cui circa 300 dedicate al Fascismo ed alla Resistenza. Quante volte viene citato Pietro Kock e la sua banda nel volume ? Nessuna. Il mio approfondimento finisce ancora prima di cominciare. Seconda osservazione. Sempre per completare la ricognizione informativa sull’argomento, vado a vedere l’ultimo film di Marco Tullio Giordana, uscito pochi mesi orsono, “Sangue Pazzo”. Per capirci, è un film su Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, divi del cinema di quegli anni, accusati di collaborazionismo con Pietro Kock e per questo fucilati dai partigiani.

Il film, peraltro molto dignitoso e crudo, porta avanti il suo punto di vista, che nella sostanza tende a scagionare i due divi dall’avere avuto un ruolo attivo e diretto nelle attività della banda, banda che Valenti e Ferida avrebbero ad un certo punto frequentato unicamente per procurare la morfina da cui Valenti era dipendente. Ma la cosa sorprendente non è tanto questa, quanto il fatto che la sceneggiatura del film è firmata, oltre che da Giordana, da Enzo Ungari. Enzo Ungari è stato un geniale ed eccentrico critico cinematografico, accanito cinephile (vedi il suo bellissimo libro “Schermo delle mie Brame”), suscitatore di varie iniziative cinematografiche, tra cui l’apertura del Filmstudio di Roma, e la progettazione della Estate Romana voluta da Renato Nicolini, cui io stesso ho partecipato. Ma il fatto è che il povero Ungari è morto quarantenne nel 1985, sconfitto in poche settimane da una cirrosi epatica fulminate. Questo significa che quella sceneggiatura, scritta da Ungari prima della sua morte, ha dovuto aspettare 25 anni per essere realizzata, ripresa in mano da Giordana. E mentre guardavo il film mi tornava alla memoria Enzo, e le nostre riunioni sull’Estate Romana, ed allora mi sono ricordato che una sera, in una trattoria di via della Lungara, lui aveva raccontato che stava lavorando ad un film su Luisa Ferida ed Osvaldo Valenti perché, da cinephile appassionato, era rimasto profondamente colpito ed affascinato dal fatto che Ferida e Valenti, quando vengono fucilati, hanno con sè le pizze di alcuni loro film, unico tesoro che hanno cercato di mettere in salvo nella fuga disperata; morti fucilati, forse ingiustamente, con le pellicole dei loro film tra le mani. Ora mi piace concludere questo intervento ricordando che questo romanzo di Videtta che oggi presentiamo, questa cruda ricostruzione dell’ambiguità delle storie e della Storia, questo documento di allarme su alcuni aspetti insabbiati del passaggio dal Fascismo alla Democrazia, questa vicenda molto commovente e commossa, storia di due fratelli che si inseguono per potersi sfuggire definitivamente (ma forse si tratta di una Fuga Impossibile), “ Un Bell’ Avvenire “ insomma, ci richiama alla responsabilità di salvare il nostro cinema, cioè il nostro racconto popolare, il racconto di chi siamo stati, di chi siamo tuttora. Un racconto coraggioso, veritiero, complesso, non semplificatario e non edulcorato, probabilmente non troppo rassicurante, da consegnare ai vostri figli.