La depressione, che il William Styron di Un'oscurità trasparente vedeva come una disperazione oltre la disperazione, può diventare un viaggio al termine della notte. anche uno strano viaggio in automobile, da farsi magari in compagnia di un figlio quindicenne, se a essere preda di un «abisso terminale» è un padre scrittore e giornalista che, con la scusa di dover scrivere un articolo, decide di raggiungere in Svizzera la casa blu, la casa dei suicidi assistiti: un luogo appartato e liminare dove chi vuole può silenziosamente consegnarsi alla quiete definitiva, senza clamori e senza obbedienze diverse da quella alla propria libertà. Ma il cammino nella notte può avere una fine, una qualche conclusione, un'interruzione, e se non all'alba di un nuovo giorno può almeno portare a una schiarita dell'esistenza, a una tregua quando non proprio a una salvezza, comunque ad una pausa, a un'inversione di rotta. È quello che accade ne La casa blu di Massimiliano Governi (Edizioni E/O, pp. 144). In questo suo romanzo breve e gigantesco, fatto solo ed esclusivamente di dialoghi (sempre a due, in alcune parti a tre, tranne che nell'ultimo capitolo), Governi imbastisce una narrazione dove la trama non esaurisce la grandezza né la forza di una storia che mette in campo mille temi: la paternità, l'essere figlio, l'amore e il disamore coniugale, il fallimento, la fede, l'egoismo e la condivisione, le ragioni del vivere e del non voler sopravvivere e persino il delitto (che non ha a che fare con alcuna componente gialla e tanto meno con la morte assistita). Con La casa blu Governi scrive una storia che fa pensare a molte altre (a cominciare, come vedrà chi la leggerà, da A sangue freddo di Capote) e che trova nell'incomunicabilità e nella solitudine, due assi portanti: così possono tornare alla mente, più per suggestione che per richiamo diretto, Gli intrusi di Simenon, oppure la sua Lettera al mio giudice (se ne può sentire l'eco nel rapporto tra padre e figlio). Man mano che si avanza si fa però più scoperta l'elisione tra l'idea della fine e quella del ricominciamento, come nella provvisorietà incerta e mediana che confonde un'anabasi e una catabasi. Nel romanzo - ed è questo un altro aspetto che colpisce - il corpo è tutto ma è anche nulla, è qualcosa di prevalente e al tempo stesso di minoritario. È tutto perché è esattamente del corpo che deve liberarsi chi sceglie di congedarsi per sempre, ed è nulla perché la storia, nel suo avanzare per dialoghi, ricorre a quella che, dopo lo sguardo, è la meno corporea fra le cose corporee, la più diafana, la più enigmatica: la voce. Quella presupposta e immaginata di chi si parla, quella che nelle pagine raddoppia in una tessitura dialogica dove a essere tessuti sono persino gli strappi e le lacerazioni di una crisi estenuata per chi la vive ed estenuante per chi ne è testimone. Ma in effetti non potrebbe essere che breve, La casa blu, perché è il racconto coagulato di una sottrazione al silenzio, di una vita che si oppone a se stessa e al suo contrario.