«I ragazzi mi hanno ascoltato, Sandor. Il loro capo mi ha detto: "Anche noi non ce l'abbiamo con suo marito. Se è per la libertà, che metta alla finestra una bandiera nazionale". Ibolya aprì la portafinestra incastrò l'asta con la bandiera all'esterno con una sedia e richiuse. Immediatamente ci giunsero le grida trionfanti dei nostri dirimpettaie il fuoco cessò. Ibolyami si avvicinò. "Ecco fatto"» (pagg.173-174).
25 ottobre 1956. Così Sandor Kopacsi questore di Budapest in quei giorni, descrive i giorni della libertà. Dieci giorni dopo, l'esercito sovietico arresta tutto il governo unngherese. Un ufficiale entra nella sala del governo e intima ai presenti di deporre le armi. Gyorgy Lukics, il filosofo più rappresentativo dell'intellettualità marxista del Paese, impegnato a tentare di dare un nuovo volto democratico all'Ungheria, chiede il permesso di abbassare le braccia per consegnare la sua arma: infila una mano in tasca della giacca e depone sul tavolo la sua penna stilografica. In Ungheria, il 4 novembre 1956, mentre tutto l'Occidente guarda al Canale di Suez, finisce così.
Il memoriale di Sandor Kopacsi consente di ripercorrere quelle giornate ma anche di ricollocarle in un tempo lungo, tra gli anni dello stalinismo duro dell'immediato secondo dopoguerra e il lungo inverno seguito alla rivolta repressa nel sangue, primo fra tutti Imre Nagy, impiccato nel 1958 dopo un processo farsa, lo stesso da cui Kopacsi esce condannato all'ergastolo. La storia dell'Ungheria vista con gli occhi di Sandor Kopacsi segna il profilo di ieri e forse consente di capire qualcosa di oggi. Egli nasce nel 1922, partecipa nel 1944 alla Resistenza contro l'occupazione nazista del Paese. Nel 1952 è nominato questore di Budapest. Nel 1956 si schiera dalla parte degli insorti allo scoppio della rivolta. Condannato all'ergastolo, nel 1963 ottiene la grazia Nel 1975 lascia l'Ungheria per emigrare in Canada (dove scrive il suo memoriale). Vi rientra nel 1989 ed è reintegrato nella polizia. Muore nel 2001. Il punto centrale è quel 1956 e riguarda i giorni caldi dell'insurrezione e del governo di Nagy, prima apparentemente votato al successo, con il conseguimento del ritiro dei sovietici dal territorio, e poi travolto dal loro ritorno. In mezzo i «dieci giorni di Budapest» tra conflitti, prima scontri e confronti con la popolazione, liberazione di prigionieri, manifestazioni di strada, le molte scene di chi pensa di «essere finalmente libero», sperimentala propria. voglia di autogovernarsi, di partecipare alla cosa pubblica per poi trovarsi completamente espropriato, imprigionato. Insieme le molte scene di solidarietà, ma anche di rispetto o di trattativa dove ogni volta in questione c'è la vita degli uomini del potere di prima, e la rabbia degli insorti, ma anche spesso la loro disponibilità a trattare con la sensazione che il domani sia una pagina bianca da scrivere. In questa veste Sandor Kopacsi questore di Budapest prima della rivolta e poi uomo di punta della sicurezza per conto di Nagy nei giorni della rivolta e del governo provvisorio racconta una vicenda dall'interno, che ha la freschezza della storia in diretta. del senso di smarrimento, ma anche della sensazione che "si può fare", che forse, pur con molte incertezze, prendere la propria sorte in mano e provare a cambiare qualcosa è alla portata di ciascuno e che importante è metterci la forza, le competenze, ma anche la sensibilità di non considerare gli insorti come "nemici" ma come tuoi concittadini che provano a scommettere sul futuro. La conclusione è l'invasione: il 4 novembre l'esercito del "Patto di Varsavia" ritorna in Ungheria. Finirà male e durerà ancora 33 anni. In mezzo, come racconta Kopacsi (p. 307 e sgg.) interrogatori, carcere, morte, tortura. secondo quel copione che Victor Serge ha raccontato splendidamente nel suo Caso Tulaev (Fazi). Nel 1989 il crollo.
Il resto è storia di oggi. Ma lì, in quella speranza recisa e poi violentemente strappata, sta forse la coda lunga della realtà dell'Ungheria di oggi, non disponibile a condividere con altri il peso della nuova crisi umanitaria che batte alle sue porte. Forse lì in quei morti di sessanta anni fa. abbandonati da tutti, soli, sta un tratto di quel rancore che attraversa le strade del Paese.