La lunga notte del musicologo Franz Ritter, inchiodato al vaticinio di una malattia senza nome e alla «tiratura a parte» ricevuta da Sarah, che gli scrive dalla remota regione del Sarawak, è la scena dell'ultimo romanzo di Mathias Enard, Bussola (premio Goncourt 2015). Tutto in una notte, a Vienna, nel pieno rispetto aristotelico delle tre unità di tempo, luogo e azione, alle quali lo scrittore – francese, ma fedele a una «diaspora» di studio incessante fra Tunisia, Siria, Libano e ora di stanza a Barcellona – ci ha abituato fin dal più celebre dei suoi romanzi: Zona (2008; Rizzoli 2011). Allora, nel claustrale teatrino di una carrozza ferroviaria, si parlava già di Oriente: quello europeo e ustionato dei Balcani. Del resto la bussola di Enard (che insegna arabo a Barcellona), come quella artefatta che Sarah regala a Franz, punta verso Oriente: da Parlami di battaglie, di re e di elefanti (2010; Rizzoli 2013) alla Via dei ladri (2012; Rizzoli 2013).
Se, come dice Kafka, ogni lettera è scritta a un fantasma, anche il carotaggio memoriale di Franz è rivolto a Sarah – presente in absentia – l'orientalista indomita, anima affine al protagonista. Mai come in Bussola Oriente è stato una costellazione così vorace di avventure e avventurieri, aneddoti e cultura. Se in Zona la figura della narrazione era un vortice, uno stream, qui è un samsara, ruota del tempo, « matassa della contingenza e dei fenomeni». Tre sono le stazioni d'Oriente di una quête lunga quindici anni: Istanbul (l'incantamento primevo), Siria (il rovello dell'«alterità» nel deserto di Palmira) e Teheran (speranza tradita dell'Iran) che fanno da cassa ecoica a tutti gli altri orienti catalogati da Franz, nel delirio sorvegliato della notte. Rifugio di occidentali in cerca di luoghi dove «l'uomo e il cielo» sono vicini, «Terzo Oriente» filtrato dalle esperienze di altri esploratori, immagine disneyana di esotismo autorizzata e propagandata dall'Arabia Saudita stessa, Oriente come rêverie per lettori e sognatori di nostalgie coloniali, ma anche «vento dell'alterità» che ha soffiato nell'Europa tra XIX e XX secolo (Balzac che, per primo, inserisce un cartiglio arabo in un suo romanzo; Mozart che col Rondò alla turca è il più bravo a elaborare una marcia di giannizzeri in un concerto europeo e siamo nel 1778; ma la lista è lunghissima). Comunque lo si guardi, l'Oriente, terra di «non-luoghi, utopie, fantasie ideologiche» è forse più propriamente un punto d'incontro fra le convinzioni di Franz – in cerca di «variazioni del sé», del meticcio – e quelle di Sarah – esaltata dall'«alterità» in senso assoluto – giacché Oriente e Occidente sono soltanto rappresentazioni astratte di una «Luce del Tutto» che nasconde le sue tracce per non farsi riconoscere. In definitiva, come recita la citazione di Lucie Delarue-Mardrus: «“Gli orientali non hanno alcun senso dell'Oriente. Il senso dell'Oriente siamo noi occidentali… [...]” Per Sarah queste righe condensano tutto l'orientalismo, l'orientalismo come sogno, l'orientalismo come compianto, come esplorazione sempre delusa».
Allora il pan-umanesimo esibito e fin troppo ecumenico, collide col discorso sulla forma che Bussola innesca inaspettatamente.
Perché, diciamolo: Bussola è un dispositivo romanzesco che guarda a se stesso, a cominciare dai materiali che lo compongono. La resa dei conti di Franz con i propri ricordi è condotta perlopiù su documenti; testi, ipotesi di articoli, abstract, la tesi di Sarah (Visioni dell'altro tra Oriente e Occidente), un libro che il protagonista immagina di comporre e del quale ci propone la divisione in tomi («Delle diverse forme di follia in Oriente»). E pattugliando questo territorio dove l'orografia è anch'essa una scrittura (a margine: non sono fuori di luogo certe affinità tra Bussola e La carta e il territorio: anche il «vino dei morti» ricorda il tirocinio cingalese del poliziotto di Houellebecq) ogni rilevamento rimanda a una rappresentazione: l'immagine di Vienna come «Porta d'Oriente» (che fu di Hofmannsthal) è una costruzione mentale. In quella che è a tutti gli effetti la scena madre del romanzo – la rivelazione atroce di un personaggio, che affonda le sue radici di sangue nel terrore della «Rivoluzione Islamica» iraniana – è dichiarata come una «posa», come una maschera che serve al personaggio per farsi compatire. Del resto, fin dall'inizio, sapevamo che l'insonnia di Franz era letteraria: «Proust fa delle Mille e una notte uno dei suoi modelli – il libro della notte, il libro della lotta contro la morte».
Immagini, residui di specchi. Quale la bussola, dunque? Nel deserto di Palmira l'agnizione stellare di Franz è sconfortante: «Noi stessi, nel deserto, sotto la tenda dei beduini, benché di fronte alla realtà più tangibile della vita nomade, dovevamo fare i conti con le nostre rappresentazioni che, con le loro aspettative, interferivano con la possibilità di fare esperienza di quella vita che non era la nostra». La bussola con l'ago contraffatto è solo un trucco da quattro soldi.
Enard dice che l'amore permette di conoscere l'altro: la schopenhaueriana agape, non l'eros, così idolatra, divinizzante e terrorizzante, l'eros del martire, dei versi scritti da Khomeini in persona. Forse è il basso dosaggio di agape il misterioso morbo che consumerà il protagonista: sciagurata scoperta della «finitudine», propria e collettiva. L'Europa è un corpo malato, che ha assemblato con le pratiche della stregoneria frankesteiniana una creatura senza più differenze, sprofondata nel proprio «sé». Un'Europa wagneriana, contrapposta a quell'altra – tutta aperta e «mediterraneizzata» – evocata da Nietzsche. La speranza è nominata, certo, ma troppo in extremis perché sia realmente affidabile. Mi sembra indicativo che tutto il romanzo sia condotto con la distanza genettiana del sommario, che rende siderale l'intervallo empatico fra storia e lettore, riportando semmai quest'ultimo a un ruolo di puro osservatore. Intanto possiamo sperare solo di sfangare la nottata, pur sapendo che ogni bussola può essere falsificata, ma anche che domani il sole continuerà a sorgere da Oriente.