Cosa ci si aspetta dal libro di una giornalista «analista economica e finanziaria»? A naso, nulla di divertente. Eppure sbaglieremmo di grosso a non leggere Piccoli piatti forti (e/o, pp. 220, euro 16) di Pascale Pujol. Davvero una giornalista e un’analista economica e finanziaria, quindi tutta grafici, bilanci e proiezioni (a quanto pare, anche piuttosto brava), eppure dotata di un letterario lato B debordante di senso dell’umorismo, concentrato in questo magnifico romanzo d’esordio.
Leggendolo, ho pensato a Totò. Non perché ci siano elementi di contatto tra la comicità del principe De Curtis e quella di Pujol. Epoche e contesti molto diversi non consentono paragoni, se non quello che un linguaggio universale risulta comprensibile in ogni tempo e a tutte le latitudini. Mi sono ricordato, leggendo Pujol, che Totò era soprannominato «’o spione», perché passava, da vero professionista, buona parte del suo tempo, a osservare la gente, per carpirne tic, vizi, debolezze, pregi: tutto oro per la rappresentazione dei suoi personaggi. «Vallo a spiegare a mia moglie», diceva Joseph Conrad, «che io sto lavorando mentre guardo alla finestra...». Ecco, i personaggi di Piccoli piatti forti sono ritratti in maniera assolutamente precisa, il che denota uno spirito di osservazione e una capacità descrittiva non comuni.
Nel romanzo v’è una moltitudine di donne e uomini colorati e bislacchi che si susseguono in una vorticosa girandola in cui realismo e surrealismo si mescolano in egual misura, ed è tutto talmente improbabile da risultare vero. In altre parole, ci sono una tale sottigliezza e abilità nella gestione dell’assurdo che, senza scomodare Ionesco, l’irreale diventa completamente reale.
Oggi è di moda (perfino fastidiosa, tanto è abusata), scrivere di cucina e anche l’idea di dedicare i 27 capitoli del volume a un piatto (ma dovrebbero metterci sull’avviso i «bocconcini per cani» del capitolo primo...), sembra non promettere granché. Insomma, è come se questa ragazza bruna dalla faccia intelligente (così appare su Internet) si fosse presa gioco di critici e lettori, dissimulando sotto un’apparenza banale e conformista l’originalità delle sue trovate, la strepitosa capacità di rappresentare gli aspetti peggiori di ogni uomo (e di ogni donna) e soprattutto il lato ridicolo.
La storia è interamente ambientata a Parigi, nel quartiere di Montmartre. Dove un’oscura e diabolica funzionaria di un ufficio di collocamento una fuoriclasse nello smascherare i finti disoccupati coltiva il sogno segreto di aprire un ristorante. Perseguendo un evidente «interesse privato in atti d’ufficio», la bella Sandrine Cordier riesce, con una serie di complicatissimi e geniali a cooptare nell’impresa un gruppo di suoi clienti che vantano competenze o qualità specifiche. C’è il professore no global diplomato chef, il grandissimo cuoco tamil, il gigantesco nero, figlio di un ministro del Senegal, il simpatico petomane alsaziano. Più di una mano la daranno, inoltre, la figlia nerd, un’insopportabile mastica chewingum con 172 di QI per 1,45 di altezza, la suocera sexy e una pornopsicologa che legge il sanscrito e conosce tutte le posizioni del Kamasutra.
La nostra astuta funzionaria si trova così a capo un’armata Brancaleone che, nelle sue mani, si trasforma in una autentica macchina da guerra. «Da dove è saltata fuori questa Mata Hari?», si chiederà il magnate della carta stampata Marcel Lacarrière, alle prese con Sandrine che gli snocciola davanti una nutrita serie dei suoi non pochi scheletri nell’armadio. Gli squali della finanza, i provinciali xenofobi, i burocrati ottusi e corrotti, i nazionalisti ignoranti, tutti passano dal tritacarne di Sandrine. Che li tritura con un’eleganza, un’intelligenza e un ritmo rarissimi da vedere. Davvero, «piccoli piatti forti» che si mangiano di gusto.