La vita di Werner Heisenberg (1901-1976) è stata indubbiamente romanzesca e non poteva essere diversamente, trattandosi di uno dei maggiori fisici del Novecento, che prima si guadagnò il Nobel (nel 1932) grazie alla scoperta del "principio di indeterminazione", poi fece una scelta difficile e solitaria: restare in Germania, sotto il regime hitleriano, mentre i suoi colleghi - in testa Albert Einstein - emigravano all'estero. Una vita romanzesca ma soprattutto enigmatica, perché Heisenberg, il fondatore della meccanica quantistica, fu coinvolto nel progetto di dare una bomba atomica alla Germania in tempo per capovolgere le sorti della guerra, e non si è mai stabilito fino in fondo con che animo prese parte a quell'impresa (non riuscita).
Non simpatizzava per i nazisti, ma lasciò cadere, nel '33, l'opportunità di seguire i suoi colleghi ebrei espatriati per le persecuzioni subite all'università e nei centri di ricerca. Seguì probabilmente il consiglio di Max Planck (1858-1847), padre della fisica quantistica, di rimanere in Germania nonostante Hitler e così creare "isole di stabilità", come le chiamava Planck, all'interno del regime nazista in via di costruzione. Un regime, peraltro, che considerava Heisenberg, un "ebreo bianco", in quanto amico e collega di fisici ebrei e democratici come Einstein, Samuel Goudsmit o Niels Bohr, il suo maestro. Ma nel '42, con l'esito della guerra sempre più incerto, il governo nazista affida ad Heisenberg il progetto per la costruzione dell'ordigno nucleare: è la sfida suprema. Il sapere scientifico è chiamato a misurarsi con le richieste del potere, un potere dittatoriale. Con che spirito Heisenberg accettò l'incarico? In che modo lo svolse?
Si è detto dopo la guerra, che forse Heisenberg era rimasto in patria per proteggere i suoi giovani colleghi o magari per rallentare il processo di costruzione della bomba, ma chi può dirlo con certezza? C'è un suo testo, risalente al '42, nel quale scrive che non c'è maggiore felicità della «consapevolezza di essere a casa propria»... E fu davvero sollevato - come sostenne dopo la guerra - quando capì che l'arma atomica non era alla portata della Germania?
Werner Heisenberg è davvero un personaggio da romanzo, ma Jérome Ferrari, nel suo libro "Il principio" (edizioni e/o), ha scartato l'ipotesi del racconto biografico e ha preferito investire le sue risorse di scrittore e professore di filosofia sui dilemmi etici e filosofici di una vita non comune. L'alter ego dell'autore, dai tempi nostri (il 1995), intrattiene con Heisenberg un dialogo immaginario: ne interroga le scelte, ne scruta opinioni e stati d'animo. Siamo nel territorio equivoco e bruciante dei rapporti fra scienza e potere, una zona d'ombra che riguarda il fisico tedesco al tempo di Hitler ma certo non risparmia i suoi colleghi impegnati, in quegli stessi anni, nel Progetto Manhattan, che porterà alla costruzione e al lancio in Giappone dei primi ordigni nucleari della storia.
Ferrari scava, indaga, cala la sua sonda di scrittore-filosofo nell'animo di Heisenberg: ne mostra le incertezze, si sofferma su certi suoi comportamenti enigmatici o superficiali, ma alla fine non giudica. Si può dire, anzi, che estende alla vita dell'eroe del suo romanzo lo stesso principio di indeterminazione scoperto da Heisenberg. Il principio dice che non è possibile conoscere simultaneamente velocità e posizione di una particella: se si sceglie di determinare la posizione, il concetto di velocità diventa privo di un senso preciso; se si determina la velocità, è la posizione a diventare vaga. «Il principio - scrive Ferrari - consiste innanzi tutto nella sua particolare convinzione, professor Heisenberg, che non raggiungeremo mai il fondo delle cose», per la precisa ragione che «le cose non hanno fondo». Le pagine più intense del libro sono quelle dedicate alla dorata prigionia di Heisenberg e di altri nove fisici tedeschi nel villino di Farm Hall, in Inghilterra, dopo gli arresti avvenuti nel maggio del '45, una volta caduta Berlino. I dieci scienziati non sanno che la casa è piena di microfoni nascosti: i servizi inglesi ascoltano le loro conversazioni, vogliono capire fin dove è arrivato il progetto atomico hitleriano e qual è stato il grado di coinvolgimento dei dieci. Anche qui il principio di indeterminazione regna sovrano.
OTIO HAHN, artefice delle ricerche sulla fissione nucleare e Premio Nobel proprio nel '45, quando riceve la notizia che il 6 agosto gli Stati Uniti hanno lanciato l'atomica sulla città di Hiroshima, si piega in due di fronte all'ufficiale inglese che l'ha informato. Le sue scoperte sono all'origine della tecnologia utilizzata per uccidere in un istante decine di migliaia di persone. Sembra spezzato dal dolore e dall'incredulità. Sentimenti condivisi dai suoi colleghi. Ma qual è lo stato d'animo prevalente? Il sollievo per non aver aiutato Hitler a dominare il mondo con un'arma terrificante o la delusione per essere stati sorpassati dagli americani? C'è più orrore o più amarezza?
Hanh, nelle conversazioni registrate dagli inglesi, sembra augurarsi che il suo vecchio amico Bohr non si sia prestato a partecipare a un progetto tanto mostruoso, ma si ascoltano anche frasi che fanno pensare al rammarico per la maggiore abilità mostrata dai colleghi impegnati nel Progetto Manhattan. La frustrazione si diffonde fra i dieci. I microfoni registrano anche pianti notturni.
I dilemmi morali sono ancora tutti aperti.