Mathias Énard è un quarantaquatrenne professore di arabo che parla sei lingue e vive con la famiglia a Barcellona, dove ha aperto un ristorante libanese. Oltre ai suoi dieci romanzi, ha curato un volume su La cucina degli scrittori. Il suo ultimo libro, Bussola è anche il suo più fortunato: l’anno scorso ha vinto il Goncourt e ora è pubblicato da e/o, nell’ottima traduzione di Yasmina Melaouah. È la storia d’amore tra Franz, specialista dell’Oriente, e Sarah, studiosa delle civiltà orientali, un amore che dura da anni attraverso Europa, Iran, Siria e Turchia.
Ma è anche la storia di un altro amore tormentato, quello tra l’Occidente e l’Oriente. E di un sogno (o un fantasma) continuamente rincorso, l’orientalismo come passione, che può condurre alla pazzia e alla morte com’è accaduto ai molti che hanno percorso negli ultimi due secoli le strade da Istanbul a Damasco fino a Teheran.
In apparizioni più o meno effimere, Énard racconta le vite appassionate di scrittori, avventurieri, musicisti, viaggiatrici ammaliati dall’esotismo di luoghi come la Persia o Costantinopoli.
E lo racconta “a modo suo”: sensuale e lirico, storico ed esotico, con umorismo e nostalgia per un mondo perduto, desiderato, mai veramente posseduto, a metà strada tra libro di viaggio, romanzo-saggio, rêverie orientalista. E con quel passo anche malinconico per schegge erudite, frammenti della memoria, garbuglio di date, luoghi, vite e racconti che ricorda l’inimitabile Sebald.
«Volevo vedere oltre le fiamme, superare la violenza trasmessa dall’informazione su Medio Oriente e Islam», dice ora Énard. Il romanzo attraversa i secoli ma ha i piedi piantati nel presente in cui l’Oriente evoca guerre, bombardamenti, sgozzamenti, gente in fuga, morte e distruzione. Bussola è «una boccata di oppio iraniano, una nuvola di ricordi, è una specie di oblio, per dimenticare la notte che avanza, la malattia che progredisce e la cecità che ci invade» dice lo scrittore.
Franz insegue l’idea che l’Orientalismo sia un sogno per noi europei. È un’idea che lei condivide?
«Gli occidentali hanno costruito un Oriente immaginario come un sogno. L’immagine condiziona ancora la nostra visione di questa gente. Il sogno ha trasformato la realtà culturale ed è l’inizio di quell’accelerazione avviata dalla globalizzazione».
Il cosmopolitismo sembra essere la soluzione di convivenza con il Medio Oriente che insegue Franz. È ancora una possibilità?
«Ne abbiamo bisogno. Non necessariamente nella vita quotidiana, ma è necessaria per la visione dell’altro, per osservare nell’altro una qualità più reale, per scorgere una possibilità al di là della violenza».
Fin dalle prime pagine c’è un accenno doloroso al possibile ritorno ad Aleppo o in Siria dopo le prime devastazioni. In che cosa si sta trasformando il sogno che le società europee hanno avuto per secoli?
«Io credo che ora bisogna sognare, bisogna prima di tutto mettere fine alla violenza, trovare un nuovo equilibrio. Poi possiamo trovare la speranza per nuove azioni facendo tesoro di tutti i collegamenti di questi anni con profughi e rifugiati, tutti quelli che sono venuti in Europa con le loro culture, le lingue, la loro cultura complessiva. La loro storia è assai triste, ma è importante trovare un nuovo rapporto con loro».
Nel romanzo appaiono anche le distruzioni e le uccisioni dell’Isis. L’idea delle rovine non esclude la realtà delle macerie?
«Un progetto letterario è sempre troppo corto per imbarcare ogni cosa. Ho scelto esempi, l’integralismo islamico, evocato a tratti, è onnipresente sottotraccia, come sono presenti le storture occidentaliste. Io ho parlato poco della guerra civile in Siria per far vedere un’altra realtà, un’altra possibilità della storia, mentre dilaga un folle e iconoclasta sentimento anti-occidentale. È un progetto per superare la violenza quotidiana trasmessa dall’informazione su Medio Oriente e Islam. E restituire un po’ di speranza»
Franz sembra considerare la crisi attuale come una fase storica destinata a essere superata, prima o poi. La pensa così anche lei?
«È un momento di questa storia, la storia non è finita lì. Certo i luoghi distrutti per sempre non sono soltanto siti turistici che non si potranno più visitare, sono una parte della nostra storia che scompare tra la polvere delle macerie. Ma il mondo è oggi più globalizzato, siamo più vicini, credo che questa età di violenza e di lutti sarà superato».
Nel romanzo c’è anche qualche accenno a “Danubio”. Perché questa polemica con Magris?
«Senza Danubio, non avrei scritto Bussola. Ma a Magris interessa più il Danubio tedesco e austriaco, è assente quello turco, islamico, orientale. Un libro non è il tutto, lascia spazio a tantissimi altri libri».