Un figlio che non vorrebbe esser figlio e un padre centenario che potrebbe essere nonno. Entrambi hanno lo stesso nome: Nemesio. Ma è stato il padre a fagocitarselo, con la sua carriera di artista ormai consacrato dagli anni e dalle avventure di una vita che ha attraversato tutto il ventesimo secolo. Non stupisce allora che il figlio si sia eloquentemente ribattezzato Nemo e che trascorra la sua esistenza nell’ignavia più assoluta, nella speranza - chissà? - di sparire, di non essere continuamente accostato a quel moloch che domina la sua vita pur non essendoci mai (gli ha persino trovato il lavoro: guardiano di museo, tanto per restare in tema). E così Nemo fa di tutto per tenersi alla larga dalla mostra che la città di Milano dedica al suo augusto genitore. Ma proprio al culmine del vernissage, ecco che il secolo presenta il conto a Nemesio il Vecchio, sotto forma di un ictus che lo fa precipitare in un coma che potrebbe concludersi tragicamente da un minuto all’altro oppure prolungarsi per settimane o mesi. Da quel momento a Nemo accade una cosa inspiegabile: ogni notte sogna.
Sogna, una dopo l’altra, le vite di quel padre inesauribile.
Di notte in notte, di sogno in sogno, Le cento vite di Nemesio passa in rassegna un secolo intero: le pseudoscienze (frenologia, spiritismo) che impazzano fra i borghesi annoiati della Belle Époque, le avanguardie futuriste, le trincee del Grappa e la Berlino di Weimar, l’Italia colonizzata dal gaddiano “vigor nuovo del Mascellone”. E poi avventure, una dietro l’altra: due guerre mondiali, la Bohème parigina, la Resistenza, lo spionaggio ubiquo degli agenti dell’OVRA, l’Italia della Ricostruzione, la militanza nel PCI e i viaggi del Nemesio intellettuale organico oltre la Cortina di ferro (Bucarest, Mosca, Praga...).
Il primo romanzo di Marco Rossari, quel Perso l’amore (non resta che bere) che è stato il suo spettacolare e scatenatissimo libro d’esordio, è uscito più di dieci anni fa. Da allora lo scrittore milanese ha attraversato le forme espressive più disparate: racconti, apologhi, poesie, paradossi, fino al recente e fortunatissimo Piccolo dizionario delle malattie letterarie (ed. Italosvevo 2016, ora in corso di traduzione in spagnolo): una rincorsa che sfocia ora in un’opera amplissima, che dispiega un afflato romanzesco composto in pari grado di felicità narrativa e naturalezza.
Nelle 500 pagine di questa picaresca crononavigazione, Rossari inanella epoche e paradigmi culturali, cogliendo sempre con precisione valori e disvalori, mode e manie, in primo luogo linguistiche (si pensi all’esilarante cerimonia del Sole Ariano in cui Nemesio si trova invischiato durante gli anni berlinesi o alla “retorica mavortina” con cui si esprimono gli ufficiali della Grande Guerra). Gli bastano pochi tratti, minime ed essenziali coordinate, per calare il lettore in un periodo storico ricostruito con naturalezza e verosimiglianza. Si sprigionano in questa favolosa rassegna tutta la curiosità intellettuale e la poliedricità di questo coltissimo scrittore.
Ma Le cento vite di Nemesio è, allo stesso tempo, un romanzo-specchio in cui il concetto stesso di memoria (non a caso, una parte importante dell’intreccio ruota attorno all’introvabile memoir autobiografico del Grande Pittore Nemesio Viti) viene messo in dubbio e progressivamente smantellato attraverso un controcanto ironico/onirico. Perché Nemo sogna la vita di suo padre? E perché ogni singola tappa di quell’esistenza cristallizzata nell’eternità del mito sembra sbriciolarsi e rovesciarsi in una parodia farsesca? Cosa c’è di vero nel mito? E cosa nella demitizzazione che ciascun sogno consegna a Nemo?
Se non c’è una risposta certa a questa domanda, è però lampante che nel romanzo-mondo di Rossari lo strumento gnoseologico per eccellenza sia la Parola, non solo nella forma del tic linguistico ma anche in quella del fraintendimento babelico (quante lingue si parlano in questi viaggi spazio temporali!), dell’arguzia verbale, dell’anagramma, del gioco di parole “alto”, tanto che in diverse pagine pare di avvertire l’eco di Eco (ecco: ci sono cascato anch’io).
Rossari prosegue qui lo scavo linguistico e la ricerca sulla Parola che costituiscono un perno della sua produzione letteraria e che emergevano già dal folgorante pastiche di Perso l’amore (non resta che bere) per farsi poi ancor più urgenti nelle pagine di L’unico scrittore buono è quello morto. E forse è proprio l’autenticità di questa urgenza a preservare Le cento vite di Nemesio dal rischio della sazietà e a rendere ogni nuovo funambolismo verbale, sorprendente, fresco, esilarante.
Perché sì, si sorride molto leggendo queste Cento vite, a volte si sghignazza, irrefrenabilmente (la sgangherata seduta spiritica messa in piedi dalla medium simil-Eusapia Palladino è degna di un episodio del miglior Alan Ford), ma la risata, come sempre in Rossari, è attraversata da una pulsazione di fondo che a volte si fa appena udibile, e a volte prende il sopravvento. E se nelle prime opere dello scrittore milanese quella vibrazione si tingeva di malinconia, di quel sentimento quasi pirandelliano della “molto triste buffoneria” che si cela nella nostra esistenza, qui è invece un interrogarsi inappagato (eccoci di nuovo dalle parti di Gadda) sulla caotica complessità della Storia e delle storie degli uomini.