Alla sua prima prova narrativa lo sceneggiatore francese Alain Gillot ci regala, con “Una scacchiera nel cervello”, un piccolo romanzo leggero anche se i temi affrontati sono altamente drammatici.
Vincent allena una squadretta di calcio a Sedan, dopo aver fallito come giocatore per un incidente; viene da una famiglia disastrata che gli ha segnato negativamente l’infanzia: padre violento, con lui e con sua madre; la sorella maggiore Madeleine era fuggita a Parigi, lui aveva subito angherie e soprusi, finché il padre ubriaco era finito in un canale con la sua auto. Ora, tagliati i ponti con la famiglia, madre ammalata e sorella scomparsa, fa una vita solitaria ma apparentemente tranquilla, con un discreto guadagno e qualche piccola soddisfazione: i quattordicenni che allena sono soddisfatti del loro Mister. A rompere la routine solitaria di Vincent giunge come una meteora la sorella, che volendo cogliere l’occasione di un corso di formazione che le permetterà di aspirare ad un lavoro migliore, gli chiede di ospitare per dieci giorni Léonard, il suo figlio tredicenne, che lei non sa proprio dove parcheggiare, visto che il padre del ragazzo li ha abbandonati anni addietro.
Vincent si lascia convincere, e accoglie il nipote, uno strano ragazzo dalla testa grande, le braccia penzoloni, incapace di guardare le persone, praticamente afasico, interessato ad un astuccio nero che contiene i pezzi degli scacchi, gioco nel quale sembra rifugiarsi per sfuggire a quanto lo circonda. I primi approcci con il nuovo ospite sono difficili, ma poi Léonard accetta di seguire lo zio, a cui da del lei, sul campo di calcio e, dopo aver studiato per una intera notte gli schemi di gioco delle principali partite disputate dai grandi giocatori delle gare internazionali, visionando decine di dvd che ripropongono strategie e tattiche del calcio giocato, accetta di mettersi in porta, e imprevedibilmente si dimostra un portiere capace, anzi, quasi eccezionale per la sua abilità nel prevedere la traiettoria del pallone lanciato dai ragazzi allenati e molto più forti di lui.
Durante una zuffa in campo Léonard viene ferito, e accompagnato all’ospedale viene curato da un medico che consiglia una visita psichiatrica: la dottoressa Catherine Vendrecken spiega a Vincent che suo nipote è affetto dalla sindrome di Asperger, una condizione di diversità che rende il ragazzo una sorta di marziano; la psichiatra spiega a Vincent le modalità con cui si muove il cervello di una persona che si trova a fronteggiare un modo di vivere, di agire, di pensare, di muoversi che gli è sconosciuta, e della quale ogni volta deve fare esperienza.
“Per schematizzare noi classifichiamo i nostri pensieri in scatole che si sono formate nei nostri primi anni di vita e che ci permettono di orientarci… Un Asperger non possiede queste scatole. Non si sono formate nel suo cervello per ragioni genetiche e dunque le deve inventare di volta in volta… Per dirla in modo molto banale, è come un Marziano di passaggio sulla Terra”
La storia si dipana tra riscoperte della famiglia, ritrovamento dei genitori, amore per una donna che si rivela la metafora vincente per la vita di Vincent… nomen omen, una volta di più.
Mi ha colpito la delicatezza, pur nella profondità dei sentimenti descritti e analizzati, con cui lo Alain Gillot è riuscito a rappresentare una situazione drammatica, quella di un ragazzino senza genitori, in una condizione di grave disagio psichico ma comunque di grande talento, che grazie all’amore di persone lontane, riesce a salvare se stesso, sua madre, suo zio, riconquistando una forma di autonomia che il calcio e gli scacchi sono in grado di fornire al suo cervello, formato proprio come la scacchiera del titolo.
Tradotto da Silvia Manfredo che ci accompagna nella provincia francese con eleganza linguistica, il libro è pieno di speranza, e per una volta il calcio è rappresentato positivamente come uno strumento di promozione, di socialità, di grandi obiettivi umani raggiunti. Un libro delicato, una lettura che fa bene alla psiche di tutti noi "normali".