Un piccolo simbolo dà titolo a questo singolarissimo romanzo: una mini-bussola cucita dentro a un tappeto volante come strumento per orientarsi nella ricerca di senso di un'esistenza dedicata allo studio di un tema in sé disorientante come quello - inevitabile la doppia ripetizione in un contesto di non casuale allusività terminologica - dell'orientalismo.
Gli elementi sono tutti in questo sintetico enunciato. Se non che si tratta di un romanzo lungo, quasi estenuante nella sua lentezza - totalmente necessaria - che scandisce secoli di studi sull'Oriente, Vicino e Medio, ora che quei paesi sono sprofondati nell'irrimediabile, secoli di equivoci e illusioni sul mito dell'Oriente, consumati febbrilmente nel corso di una notte d'insonnia da parte del narratore, accademico orientalista cui è stato diagnosticato un male che potrebbe ucciderlo a breve, narratore che centellina nel dilatarsi del tempo senza sonno (Proust echeggia senza sosta) le più varie esperienze da lui vissute nelle città che fanno da sfondo alla narrazione - Istanbul, Teheran, Damasco, Aleppo - o lontano da quei paesi, nella loro ricreazione sulla carta, esperienze viste tutte attraverso il prisma della delusione d'amore.
Ma le bussole che fanno capolino dalle pagine di Enard si moltiplicano sul filo del racconto. E tra le tante, la più densa di rimandi simbolici è quella che Sarah, la giovane collega infelicemente amata, regala a Franz, l'angosciato etnomusicologo insonne. È la copia di una bussola che sembra possedesse Beethove, con una piccola sostanziale differenza: invece d'indicare il Nord, indica costantemente l'Est. È stata lei, Sarah, a manipolare l'oggetto prima di regalarlo al disorientato professore, e ride ogni volta che lui, guardando la bussola, si sente ulteriormente smarrito.
Vincitore del Goncourt 2015, Bussola è in effetti stato scritto, si direbbe, con lo scopo preciso del disorientamento. In questo, Mathias Enard (già noto al pubblico italiano grazie soprattutto al prodigioso Zona, tradotto anch'esso con la consueta perizia da Yasmina Melaouah) dimostra di aver fatto sua la lezione del maestro Flaubert. Si ricorderà la scena clou di Madame Bovary, in cui il cocchiere della carrozza dentro alla quale siedono Emma e Léon non visti da noi lettori in virtù di una tendina accortamente tirata dall'autore (tendina su cui si concentrarono tanto l'accusa quanto la difesa, nel processo per oltraggio al pudore al termine del quale il romanzo di Flaubert, lo stesso anno in cui vennero condannati per la medesima accusa I fiori del male di Baudelaire, ottenne invece l'assoluzione nonostante la protagonista adultera). Quel cocchiere che porta avanti la carrozza senza sapere dove andare, imprecando e sudando per il lavoro da forzato che gli tocca, è un'immagine del narratore, smarrito ma costretto ad andare avanti. E la carrozza è immagine della pesante macchina del romanzo, indotto da necessità, irresistibile e doloroso insieme. Identica è la condizione del personaggio che guida nel deserto il professor Ritter e la giovane ricercatrice e che perde letteralmente la bussola: impreca e suda, imbrogliato dalle difficoltà del percorso. Mentre i suoi passeggeri, in balia del romanzo, non sanno dove la trama - a sua volta spezzata e sconvolta dal degenerare dei conflitti - li conduce via via.
È l'aporia del soggetto. Il suo scopo, ha detto in sintesi Enard in svariate occasioni, era quello di «lottare contro l'immagine semplicistica e immaginaria di un Oriente musulmano e nemico». Per fare questo, però si è affidato a un narratore terminale. Quasi che l'accorata difesa dell'interazione culturale tra Oriente e Occidente non potesse paradossalmente figurare che in un contesto di dissoluzione e morte. A questo si aggiunga che il professore viene immaginato da Enard viennese, disperatamente mitteleuropeo (bella la pagina dedicata a Magris). Vienna come porta orientis, ma porta destinata a rimanere chiusa?