Maternità a 360 gradi. Vista come accoglienza, vissuta anche da chi non ha figli e pure dagli uomini, questo il messaggio che vuole trasmettere Simona Lo Iacono (Siracusa, 1970), giunta tra i dodici finalisti del Premio Strega con il romanzo «Le streghe di Lenzavacche» (E/o, pp. 151, 15 euro). Bionda, elegante, accuratamente truccata, lo sguardo e la voce, dal marcato accento siciliano, dolcissimi, Lo Iacono lavora a Catania come magistrato. Presta, inoltre servizio al carcere di Bruscoli da volontaria, tenendo corsi di letteratura, scrittura e teatro, tutti mezzi artistici con i quali intende applicare il principio rieducativo della pena sancito dall’articolo 27 della Costituzione.
«Tengo molto a questo mio progetto cui lavoro da anni», spiega Simona. «A ciascuno, anche a chi ha sbagliato, deve essere data l’opportunità di un cambiamento in positivo!».
E il suo romanzo è davvero una sfida alla malasorte, affrontata con fantasia ed allegria da due donne sapienti, Tilde e Rosalba, rispettivamente nonna e madre di un bimbo disabile, ma vivacissimo chiamato, a dispetto di tutti e di tutto, Felice. Ma chi erano le streghe di Lenzavacche?
Innanzi tutto non erano maliarde, ma una comunità di donne sagge provate, da qualche dolore, da una ferita, che si erano aggregate nel lontano Seicento per riuscire ad allevare i propri figli. Cosa che sarebbe stata impossibile in quell’epoca, da sole. Siccome erano, appunto, «sapienti», credevano nelle storie e nella fantasia e, solo per questo, venivano tacciate di stregoneria da un popolino ignorante e malevolo.
Proprio da loro discendono Tilde e Rosalba, nonna e madre di Felice?
Sì, precisamente da Corrada Assennato che, quando decide, in stato gravidico, di curarsi con le erbe e di darsi alla letteratura, verrà letteralmente perseguitata dal marito e, infine, distrutta.
Lei parlava di maternità anche maschile, ma da quel che ci racconta gli uomini nel suo romanzo, non fanno una gran bella figura!
Non è così! «Le streghe di Lenzavacche» si svolge nel 1938, in piena epoca fascista, in un piccolo paese della Sicilia. Ma già nel quinto capitolo incontriamo il farmacista, dutturi Mussumeli, un personaggio, che io amo moltissimo. Libertino, amante della buona tavola e di un parlare a dir poco colorito, Mussumeli ha un grande cuore, aperto agli ultimi. Si prenderà subito a cuore il piccolo Felice, insegnandogli a comunicare e a crescere.
C’è un altro personaggio maschile, dall’anima generosa, che possiamo conoscere?
Certo! Si tratta del giovane maestro Alfredo Mancuso, di cui il bimbo diventerà allievo. Alfredo insegna, in pieno contrasto con il regime, storie in cui ogni ragazzo, anche se non perfetto, come voleva il nazifascismo, può sviluppare le sue doti personali e la sua unicità.
Ma come poteva una scuola del Ventennio accettare un bambino disabile come Felice?
Ho scoperto, nel corso di un’udienza, l’esistenza di un Regio decreto del 1925, che consentiva di ammettere alla scuola alunni disabili in classe differenziate. Proprio da lì è nata l’idea del romanzo. La legge, ancora alla base del nostro sistema educativo, è stata in realtà applicata, per la prima volta, solo circa cinquant’anni dopo, nel 1970. Ma io ho immaginato che esistesse un bimbo che si fosse avvantaggiato del regio decreto durante il Ventennio. E da lì è nata tutta la storia.
Rosalba, la madre di Felice, non si è mai sposata ed in seguito il padre del bambino ha dovuto abbandonarla. Di che sostanza era l’amore che univa la coppia?
Li ho descritti come due «fiamme gemelle» al posto di due anime gemelle. Il loro legame è fortemente carnale, ma la passione si trasfonde pure nell’anima.
Quando Rosalba accoglie l’amante, l’arrotino detto il «Santo» in casa, per niente ostacolata dalla madre Tilde, veste abiti colorati di broccato, si adorna di collane di coralli e conchiglie come una dea pagana.
Li unisce la forte passione per la lettura...
È, infatti, il fatto che il «Santo»amiilibriafarsìcheRosalba sia attratta perdutamente da lui. La loro storia è breve e intensissima, profondamente legata ai cicli della natura e della terra. Da quest’unione nasce Felice, che anche se fortemente disabile, viene accolto, da mamma e nonna con allegria.
Pure Tilde, infatti, colpisce come donna di estremi forza e temperamento.
Il fatto che si prepari all’uncinetto, serenamente, la coperta della propria morte la dice lunga. E’ un’anziana, che vive in assoluta armonia tutti i passaggi, quello dalla giovinezza alla vecchia, per esempio, e dalla vita alla morte. Desidera accompagnare il nipotino fino ad una relativa autonomia. Quando questo obiettivo sarà raggiunto, darà l’ultimo punto d’uncinetto alla sua coperta e spirerà con dolcezza, naturalmente.
Non riveliamo tutto, ma il romanzo si chiude con una frase di speranza. Cito, alla lettera: «Al ché ho capito che ogni volta che una donna sarà madre a dispetto del mondo e racconterà storie le streghe torneranno».
Si tratta di un atto di fiducia nella vita. E madre possono esserlo tutti, anche chi non ha figli, anche chi è di sesso maschile, pure chi sta in carcere, se gliene viene data l’opportunità.
La maternità significa saper accogliere e magari raccontare storie. Finché si narreranno storie le streghe torneranno.