Ama stare alla larga dagli umani, Muriel Barbery. O almeno dagli umani prosaici. Nelle persone, nei luoghi e negli oggetti cerca la luce nascosta nel silenzio, nella pace, nei dettagli, nelle poche parole abitudinarie che danno solidità a un incontro, nel lusso della lentezza. In sedici anni ha scritto tre romanzi. Il primo, Estasi culinarie, narra l'agonia di un raffinato ma crudele critico gastronomico. Il secondo, L'eleganza del riccio, che le ha dato la fama mondiale, di una portinaia divoratrice di libri, una ragazzina intellettuale e un affascinante inquilino giapponese. Il terzo, Vita degli elfi (tutti E/ O), uscito poco tempo fa, è il primo di due volumi su Maria e Clara, giovani eroine che difendono la natura dalla violenza.
Quali sono i suoi luoghi di ispirazione?
Francia. Italia. Giappone. Per questo ultimo libro in particolare, l'Abruzzo e Kyoto, che è poi il vero mondo degli elfi.
Come mai l'Abruzzo?
Ad Amsterdam, dove ho vissuto per qualche tempo, ho conosciuto un cuoco italiano che ha scritto un libro in olandese sulla cucina abruzzese. Non sapendo la lingua, guardavo le fotografie: erano di Santo Stefano di Sessanio,un paese primitivo e innocente che ha conservato un'essenza ormai difficile da trovare in questo mondo. Ci sono andata: un villaggio appollaiato in cima alla collina, con le case che girano intorno.
C'è un luogo così anche in Francia?
In Borgogna. Ci ho vissuto quattro anni da giovane insegnante. Un piccolo villaggio che si chiama Semarey. Un laghetto, una collina, una bella vista. Un luogo contadino, in cui a parlare è la terra. E poi Kyoto, dove ho concepito gli elfi del mio romanzo.
In particolare dove?
A Shinnyodo. È un tempio, con dei giardini intorno. Un luogo da visitare assolutamente. Lì vivono i miei elfi. Questi tre luoghi hanno in comune il sentimento dell'invisibile. Provate e lo sentirete.
In quali luoghi scrive?
Scrivo al mattino, prima dell'alba. Nel mio ufficio. Tenendo davanti a me dipinti e sculture che ho scelto apposta per ispirarmi: un fiore di loto astratto, a inchiostro, del pittore cinese Chen Jiang Hong; una calligrafia giapponese del maestro contemporaneo Tsujimura Shiro e una piccola Venere primitiva, dea della fecondità in miniatura. Difficile che io scriva in giro, perché ho bisogno di un rituale molto ripetitivo, con i miei gatti e il mio tè. Devo ricreare una bolla.
I viaggi però la ispirano. Che cosa consiglierebbe di vedere, ai suoi lettori?
Prima di tutto penso a un quadro: una natura morta di Jean-Baptiste-Siméon Chardin, con una caffettiera, un bicchiere d'acqua e alcuni spicchi d'aglio. Si trova al Museo d'Arte del Carnegie Institute, a Pittsburgh. L'ho messa anche in Vita degli elfi. Poi naturalmente penso al Giappone. Il Koto-in, a Daitoku-ji, a Kyoto: vale la pena visitare l'interno del tempio, ma soprattutto i l lungo sentiero costeggiato di bambù che passa sotto il portico di legno. Quando lo attraverso ho l'impressione di staccarmi dal suolo.
Quel viale di pietra ha qualcosa di incomprensibile e meraviglioso.
La cucina giapponese è uno dei suoi amori.
Esatto. Yakitori a Kyoto significa carne grigliata. Gli yakitori sono ristoranti dove si mangia divinamente. Alcuni sono piccoli, con lo spazio appena per muoversi e non ci stanno più di dieci clienti. Magari sono in disordine, il sistema di ventilazione non funziona benissimo e appena si entra ci si impregna dell'odore della cottura. Ma tutto è delizioso: il bancone del bar in legno antico, le bottiglie, i piatti, le due parole da scambiare con lo chef. E si ha bisogno di tornarci e tornarci, perché quando si ordina una birra con edamame è straordinario.
Un oggetto magico della sua infanzia?
Un pianoforte a coda, nero, che avevamo in Touraine. Un Pleyel, come quello di Chopin e Liszt. Ascoltando mio padre ho scoperto che cos'è l'eternità: le note trasfigurano il rapporto con il tempo e creano una parentesi. La presenza di quel piano in casa era inebriante.