Ero in udienza. Fascicoli polverosi si accalcavano intorno a me e alle scranne. Avvocati e testimoni sudati sbraitavano per il caldo.
Non avevano torto: il fumo dello scirocco ci lambiva come una lingua dell’inferno. La toga mi pesava sulle spalle.
Era luglio inoltrato e dalla finestra spalancata della sezione distaccata di Avola (una ex Pretura che dirigevo ormai da otto anni) arrivava l’alito del mare e il garrito sbieco di qualche gabbiano.
Dietro la porta dell’aula di udienza, il solito scalpiccio mi avvertiva che il sig. Mario Di Gregorio, mio fidatissimo assistente (quasi un giudice, a dire il vero, per essersi conquistato sul campo una notevole cultura giuridica), stava per arrivare con qualche novità.
E infatti eccolo, per annunciarmi che il guasto all’aria condizionata non sarebbe stato riparato.
Sospirai.
Avevo tra le mani un processo ambientato in contrada Lenzavacche, un territorio di Noto che rientrava nella mia giurisdizione e dove accadevano sempre i fatti più strani. Un processo per lesioni ad una minore disabile. Il colpevole era un professore che – per negligenza – non era riuscito ad evitare che la ragazza cadesse a terra, procurandosi varie ferite.
Fu così che feci la scoperta.
Mi resi infatti conto che una delle parti invocava l’applicazione di un regio decreto del 1925 ancora in vigore, che costituiva la base – l’ossatura direi – della legislazione scolastica.
Tra le varie disposizioni una in particolare mi colpì. Era quella che – già a far data dai primi anni venti del secolo scorso – consentiva ai disabili di accedere all’istruzione pubblica in classi differenziate.
Strabiliai.
Come, una legge così aperta in pieno regime?
Terminata nel tardissimo pomeriggio l’udienza, congedatami dal sig. Mario Di Gregorio più contrariato che mai (non riuscendo a riconciliarsi con i tecnici dell’aria condizionata), e rientrata a casa, mi misi in ricerca.
Non era la prima volta che davo la caccia a leggi sorprendenti o stravaganti, e che le norme mi costringevano a indagini quasi da archivio.
Il mondo giuridico era complesso come un universo di stelle cadenti e vecchissime, che continuavano a promanare luce pur essendo morte da secoli.
Poi verificai i miei dubbi. Il regio decreto era, in effetti, un testo normativo all’avanguardia per quell’epoca, ma non era mai stato attuato.
Si dovranno aspettare gli anni ’70 per le prime – effettive – applicazioni.
Si trattava quindi di una legge di propaganda, emanata nel periodo in cui il regime aveva il consenso del popolo. Una legge che certamente nel 1938, allorché vennero emanate le leggi razziali e i programmi di eugenetica (che imponevano l’eliminazione dei disabili e dei malati), il Duce aveva dimenticato di abrogare, preso da altre preoccupazioni politiche.
E mi chiesi… e se almeno un bambino, nel 1938, avesse invocato questa legge?
Certo… non un bambino qualsiasi, ma un bambino speciale, disabile sì, ma tenacissimo e fantasioso, innocente e stupefatto nonostante la crudeltà degli uomini.
Certo, mi dicevo… dovrebbe essere un figlio di re! O, forse, di maghe, di animulare, di streghe.
Soltanto con una simile famiglia alle spalle, infatti, avrebbe potuto spuntarla contro il regime fascista!
E mi precipitai al computer per afferrare la voce che frattanto era venuta a visitarmi.
In preda a uno stato febbrile, e senza sapere a chi appartenessero le parole che stavo seguendo, buttai giù le prime righe del romanzo:
“La prima volta in cui ti vidi eri talmente imperfetto che pensai che nonna Tilde avesse ragione. Avrei dovuto mettere sotto la tua culla otto pugni di sale, bere acqua di pozzo e invocare le anime del purgatorio. Poi dire tre volte: Maria Santissima abbi pietà di lui, affidarti alle mani del primo angelo in volo e assicurarti al collo una catena della buona morte.
Non lo avevo fatto“.