Ogni udienza può essere l’occasione per scrivere un libro. Se il magistrato si occupa di penale sarà portato a scrivere gialli, noir, legal thriller. Nel civile lo spazio dell’immaginazione si dilata in altre pieghe e piaghe della vita. Se ha il gusto della storia e della letteratura, oltre che una buona penna, la molla della scrittura è carica al massimo. Allora gli può capitare di seguire i sentieri antichi del diritto, leggere i processi della Santa Inquisizione, vecchi testamenti del Seicento. Oppure imbattersi in un regio decreto del 1925 che prevedeva l’inserimento a scuola degli invalidi. Il fascismo dimenticò di abrogarlo, nella foga di costruire l’uomo nuovo nelle aule scolastiche. E’ proprio questo regio decreto, mai applicato, ad avere ispirato la siracusana Simona Lo Iacono (magistrato a Catania, finalista premio Strega con Le streghe di Lenzavacche). Da una legge nasce il personaggio di Felice, uno storpio (l’opposto dell’ideale fisico che aveva il Duce) che parla attraverso un incredibile abbecedario alimentato a sputi. E la prima parola compiuta che sputa fuori è «scuola».
Felice, che è la somma di tutte le fragilità umane ma vuole andare a scuola nel 1938, ha la fortuna di nascere in una famiglia di sole donne, discendenti da una stirpe di streghe buone, letterate e benevole. Il padre è un arrotino che nessuno sa da dove venga e chi sia; conserva nella sacca degli strumenti i suoi libri e un giorno viene inghiottito dalla polizia politica. La prima volta che la madre vede Felice è «talmente imperfetto» che vorrebbe affidarlo al primo angelo che passa per assicurargli «al collo una catena della buona morte». Rosalba invece se lo tiene amorevolmente, e nonna Tilde, che crede ai segni del cielo e del sottosuolo dell’anima, va a seppellire la placenta sotto un vecchio noce, invocando i nomi degli antenati. Una originale storia magica, struggente e siciliana, che avvolge come il fumo.
Con un linguaggio elaborato e teso, Lo Iacono gioca su piani temporali paralleli. Nel primo Rosalba racconta a Felice la loro vita. A questo racconto si alternano le lettere alla zia che scrive il maestro Mancuso, vessato da un direttore fascista. Mancuso è allergico al regime: è affetto dal virus che distrugge le certezze dei suoi alunni e insinua «il dubbio che la realtà vada lacerata dalla fantasia». Li invita a cercare «in ogni uomo un mistero». «Della storia ho voluto che contemplassero i morti, i perseguitati da un destino scritto da altri, i tralasciati, gli invasi, i dimenticati». E’ il senso della vita di Lo Iacono, il mondo al contrario nelle mani degli ultimi.
Il terzo atto del romanzo è un volo pindarico nel Seicento, in una casa di campagna dove un gruppo di donne seleziona erbe. Intrugli in una strana comune di donne povere, emarginate, ripudiate, ragazze con figli senza marito. La sera cantano e ballano. A raccogliere queste disgraziate è la straordinaria Corrada Assennato, capostipite delle streghe compassionevoli e curatrici. «Una frotta di donne sole, rese audaci dalla povertà e dalla sfortuna, su cui svolavano tordi che starnazzano riempiendo l’aria di richieste, un urlo senza nome, a cui nessuno prestava orecchio». Corrada lascia un testamento, scritto nel 1699, che viaggia attraverso i secoli fino ad arrivare alla madre e alla nonna di Felice.
Lo Iacono ha una notevole capacità di ricostruire il linguaggio giuridico del Seicento, ma la cosa più intrigante è il punto di ingresso nella testa di una strega letterata. Oggi Corrada sarebbe un’intellettuale di professione erborista. Ma in quel secolo buio, segnato da peste, carestia e pregiudizio, le erboriste venivano issate su una catasta di legno e arse vive. Corrada è più fortunata. Si salva in un sabba di libri e parole, l’unica magia per riscattare gli uomini. «La parola evocativa di solidarietà tra gli uomini», scrive Lo Iacono nella sua visione ottimista della vita. L’unica che può salvare l’ossimoro Felice e tutti gli infelici della Terra.