Ho una certa propensione verso i libri che trattano di isole, anche se in questa sede raramente ne ho parlato, non poteva sfuggirmi questo volume targato Edizioni e/o, Isole minori di Lorenza Pieri. Ma di questa questione, intendo delle isole, l’affronterò più avanti.
L’isola del Giglio solo cinque tipi di rumori: «acqua contro scogli, acqua contro scafi, motori a scoppio, grida di uccelli, voci umane». Poi qualcosa interrompe questa nenia domestica.
Sul finire dell’agosto del 1976 si fa sempre più insistente la voce che vuole i due terroristi Franco Freda e Giovanni Ventura, accusati della strage alla Banca dell’Agricoltura di Milano, mandati al confino su quest’isola di sole e blu. Sbarcano il 6 settembre, anzi atterranno perché i gigliesi li attendono al porto, pronti a ribellarsi contro questa decisione. Dietro ci sono le ombre lunghe di certi misteri mai risolti, di oscuri burattinai come accade in qualsiasi vicenda italiana contorta in cui entrano in gioco politici, servizi segreti e organizzazioni malavitose.
A capeggiare la rivolta ci sono la Rossa, madre di Teresa e Caterina, seguita dagli abitanti del luogo,e dal marito Vittorio, non proprio convinto.
Le due bambine, tutt’orecchi e pronte a emulare le gesta degli adulti, immaginano Fredevventura come un mostro a due teste, pronto usurpare quiete e libertà.
A far compagnia nei loro giochi c’è un cane anzi la cana, Immacolatella, un omaggio alla Morante, nome subito storpiato e ridotto a Irma. Anche Teresa conserva questa riverenza letteraria, almeno nelle intenzioni, se fosse stata maschio si sarebbe chiamata Arturo.
La vicenda è narrata con gli occhi di lei, in cui punte d’ironia e magia infantile lasciano il posto prima al disincantato dell’età adulta. Quarant’anni di cronache italiane si intrecciano con quella personale.
Caterina è la sorella maggiore, perspicace e ribelle, un rapporto profondo e contraddittorio le lega. Teresa fatica a stare dietro alla sua esuberanza:
Caterina il sole, io la sua ombra.
Caterina che piange di rabbia, io che rido per niente.
Caterina e le sue storie, io il suo pubblico.
Caterina l’avvocato, io il cliente assolto.
Caterina rossa, tra i rovi e l’erba secca, io mora tra i papaveri e le ginestre.
Caterina continente, io isola minore.
Una sorella non puoi sceglierla, te la devi tenere. Teresa soffre della sua intraprendenza, ma si culla con le storie narrate nel cuore della notte e del sostegno sincero. Tuttavia permane la sensazione di sentirsi inerme, incapace di difendersi dal fascino e dalle decisioni altrui, a constatare la sua vigliaccheria. Un’esistenza sfocata, dunque, sempre sintonizzata sulla sua minorità.
Ma qui le isole minori sono due, Teresa e il Giglio.
Al Giglio, una pietra galleggiante nel Tirreno, arrivano come echi i sussulti dell’Italia e l’unico caso in grado di attirare una certa risonanza si dissolve in poche battute. Ma a Teresa queste cose importano poco, almeno fino a quel momento, impegnata ad assaporare una piccola porzione di deserta e limpida con l’allontanarsi dell’ultimo saluto dei villeggianti: andare a pesca con il padre, dormire all’ombra di lui, perdersi nel tuttoblu, la luce sul granito, la pirite attaccata ai piedi, il maestrale che entra dalla finestra, nutrirsi del respiro marino. Appartenere a quel tutto e al tempo stesso non sentirsi isolana, ma isolata.
C’erano paesi sempre freddi e città sempre piene di cemento e macchine, io avevo un’isola, e la fortuna di passare la maggior parte del mio tempo con il mare come orizzonte, circondata da una cintura di sicurezza liquida che metteva sempre al riparo da tutto quello che succedeva là fuori. Quasi sempre.
Anche in famiglia ci sono tracce dei grandi eventi che hanno colpito direttamente Nonnalina ma c’è grande riserbo, la Rossa e Vittorio hanno vissuto le rivolte del Sessantotto. Teresa si sente deficitaria in tal senso, incapace di esercitare un’attrattiva sulla Storia.
Nuotai a lungo e a un certo punto mi immersi sott’acqua. Volevo andare giù, sempre di più, fino a toccare le ciocche delle posidonie nere sul fondo. Mi sentii invadere dal desiderio di non risalire, di restare aggrappata alle alghe fino a che l’acqua mi avesse riempito i polmoni, in quel silenzio, là sotto, compressa ma leggera, coi capelli che ondeggiavano come meduse, tutto quell’azzurro. Ma non ci riuscii, il corpo risalì da sé, la bocca cercò subito l’aria con un respiro terrorizzato. Rimasi tutto il pomeriggio immobile sullo scoglio, a bruciarmi, fino a che il sole non sparì dietro il monte. Allora presi il mio asciugamano e mi incamminai verso casa. Lungo la strada mi fermai a incidere una piccola pala di un fico d’India con un coltellino che mi aveva regalato Vittorio. Scrissi il mio nome. Quella scritta sarebbe rimasta lì a crescere con tutta la pianta per un bel po’ di anni, con un bordo grigio e duro che non si cancellava e quella pala che andava sempre più in alto.
Ma quando la Storia fa il suo giro di boa al Giglio tante cose sono cambiate: la crisi e le trasformazioni ne hanno modificato la genealogia turistica, tante promesse non mantenute si sono infrante sugli scogli.
Teresa lascia l’isola più volte e più volte vi ritorna. Diventa una donna, si butta a capofitto nel lavoro, cambia; mentre il profilo dolce dell’altra donna, l’isola, rimane immutato, sempre nell’attesa del suo rientro. Negli anni rinnega il suo isolismo sedotta dai richiami urbani perché c’è il dolore di un’assenza, di un cielo nerissimo considerato il tetto di casa, una fedeltà di fondo.
Sembra quasi una premonizione la citazione dall’Isola di Arturo posta in esergo al libro: «quella, che credevi un piccolo punto sulla terra, fu tutto». Un brivido nero si proietta dal faro sotto un soffitto di stelle difficile da contenere in due occhi, per schiodarla dall’immobilità.
L’isola non fa i conti con il tempo, a quelli ci pensa l’uomo.